Saraceni Carlo (1579 - 1620). Attribué à. Tableaux Huile sur toile marouflée sur toile "Couple libertin". Entourage de Carlo Saraceni. Ecole italienne. Epoque: XVIIème. Dim.:+/-38x48,5cm.
Carlo Saraceni (1579 - 1620) Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne Olio su tela 92 x 76,5 cm Elementi distintivi: al verso della cornice, timbro dello specialista in cornici "FRANCO SABATELLI"; scritta "LL" in gesso e due etichette bianche stampate in inchiostro nero «CARAVAGGIO & HIS WORLD. Art Gallery of New South Wales: 29 November 2003 – 22 February 2004; National Gallery of Victoria: 11 March – 30 May 2004. Cat. No. 52. Carlo Saraceni, Judith with the head of Holofermes. Collezione Koelliker», in inchiostro blu e poi compilata in penna «piccin trasporti d’arte s.r.l. MOSTRA: “CARAVAGGIO & HIS WORLD” – AUSTRALIA; TITOLO DELL’OPERA: SARACENI, “GIUDITTA CON LA TESTA DI OLOFERNE” COD. LK. 0908; PROPRIETA’: KOELLIKER / MI – CASSA NR. 18 -»; nastro adesivo bianco in penna nera «K 13 PRA??»; sull’asse mediano orizzontale del telaio, in pennarello nero «LK0908»; tracce di una etichetta rimossa Provenienza: Collezione privata; Christie’s, New York ("Important Paintings by Old Masters", 6 giugno 1984, lot 179, Saraceni) (?); Farsetti, Prato (14 maggio 2002, l. 1065, Saraceni); Collezione Koelliker (novembre 2002) Bibliografia: G. Briganti, “Mostra di Pittori Italiani del Seicento”,Roma, 1944, n. 28 (?); Christie’s, "Important Paintings by Old Masters", lotto 179, 6 giugno 1984, New York (?); J. T. Spike, scheda, in J. Blunden, a cura di, "Caravaggio & his world: darkness & light", catalogo della mostra, (Syndey, Art Gallery of New South Wales; Melburne, National Gallery of Victoria), Sydney 2003, pp. 182-183, cat. 52 (Saraceni, 1620); G. Papi, scheda, in J. Milicua, a cura di, "Caravaggio y la pintura", catalogo della mostra, (Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya), Barcellona 2005, p. 277 (Saraceni); G. Papi, scheda, in G. Papi, a cura, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", catalogo della mostra (Ariccia, Palazzo Chigi), Milano 2006, pp. 102-105 n. 24 (Saraceni, verso il 1615); S. Benedetti," The 'schola' of Caravaggio. Ariccia", «The Burlington Magazine», CIL, feb. 2007, p. 129 (Saraceni e bottega); G. Coco, scheda n. 34, in M. G. Aurigemma, a cura di, "Carlo Saraceni 1579-1620. Un Veneziano tra Roma e l'Europa", catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia), 2014, pp. 239, ill. p. 238 (Saraceni); A. Donati, "Una Giuditta di Saraceni e una Vanità di Cagnacci", in «Arte/Documento», n. 33, 2016, pp. 172 (Saraceni, verso il 1615) Esposizioni: J. Blunden, a cura di, "Caravaggio & his world: darkness & light", Syndey, Art Gallery of New South Wales; Melburne, National Gallery of Victoria, 2003, cat. 52; G. Papi, a cura, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", catalogo della mostra (Ariccia, Palazzo Chigi), Milano 2006, pp. 102-105 n. 24 Certificati: lettera di Mina Gregori (come Carlo Saraceni; copia fotostatica); scheda di Gianni Papi (come Carlo Saraceni e Bottega, aprile 2003; copia fotostatica) Stato di conservazione. Supporto: 90% (in prima tela, con alcuni sfondamenti opportunamente suturati) Stato di conservazione. Superficie: 80% (cadute di colore, integrazioni e ritocchi, vernice protettiva) La “Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne” del veneziano Carlo Saraceni (1579 circa –1620), invenzione tra le più fortunate del primo caravaggismo che osserviamo qui in un prototipo autografo, rielabora due opere capitali del Merisi - la “Giuditta” di Palazzo Barberini (1602), di cui è citata la testa della vecchia, e “Davide con la testa di Golia” della Galleria Borghese (1609-1610), che fa da modello per il capo mozzato – letteralmente, in una luce nuova, costruita intorno ad una candela: la luce interna, notturna, del tenebroso caravaggismo nordico. Poco dopo il 1610, secondo la critica Saraceni elabora una prima versione del soggetto “rieditando” un prezioso dipinto di Lorenzo Lotto di un secolo prima (è datato 1512, collezione BNL) in due opere conservate alla Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda e ai Musei Civici di Verona. Poi sterza verso il naturalismo, e rappresenta – in una tela conservata presso il Kunsthistorisches Museum di ideazione completamente nuova - se stesso nella testa mozzata di Oloferne, come Caravaggio aveva fatto nel “Davide e Golia”, e Giuditta e la fantesca quasi costrette in uno spazio esiguo e drammatico (la fantesca addirittura tiene sollevato con i denti il sacco in cui viene riposta la testa), primariamente definito dall’irradiarsi della luce. Questa invenzione ha una potenza dirompente, e non smette di affascinare i pittori e i collezionisti ben oltre i confini d’Italia e i 41 anni di vita concessi a Saraceni: Anna Ottani Cavina, alla voce “Saraceni”, ultimata nel 2017, del “Dizionario Biografico degli Italiani”, ricorda che sono decine i dipinti riconducibili a questo modello: la cui diffusione in repliche e copie punteggia così lo sviluppo del Caravaggismo, soprattutto nel suo transito verso il Nord Europa, sino alle versioni introdotte da David Teniers il Giovane (1610-1690) nei suoi famosi “cabinets d’amateur”. Delle moltissime versioni esistenti, le prime e principali – tra cui il dipinto in esame – vengono create tutte nella bottega e sotto la regia, se non dalla mano, di Saraceni, che ne definisce le principali varianti: lo sviluppo delle quali, paradossalmente, testimonia – insieme all’espansione del naturalismo – la progressiva distanza dal maestro. Il complesso impiego di prototipi, repliche con varianti e copie messo in atto da Carlo Saraceni nella propria bottega quantomeno a partire dagli anni dieci del Seicento è bene illustrato da Yuri Primarosa in due recenti contributi ("L’originale ritrovato. Carlo Saraceni e l’ "Angelo che veglia il Bambino Gesù con la Vergine e sant’Anna” tra repliche autografe, derivazioni e copie", in P. Di Loreto, a cura di, "Originali, repliche, copie. Uno sguardo diverso sui Grandi Maestri", Roma, 2018, pp. 174-180 e "Nuova luce su Carlo Saraceni: La Madonna del Pilar di S. Maria in Monserrato e altri inediti", in «Storia dell’Arte», Inverno 2018, pp. 73-74 e 75 nn. 18-19). Saraceni, giunto a Roma nel 1598 e subito entrato nella vita artistica cittadina, prima appoggiandosi allo scultore vicentino Camillo Mariani (1567-1611) e poi al pittore tedesco Adam Elsheimer (1578-1610), si guadagna rapidamente l’amicizia di Caravaggio di cui, per parafrasare Manzoni e Longhi insieme, lava il realismo e i violenti chiaroscuri nel tonalismo neo-giorgionesco della laguna veneta. È un rapporto che si può seguire nella evoluzione dello stile, nella scelta dei soggetti e persino nelle carte processuali, a proposito dell’omicidio di Ranuccio Tomassoni, a quanto pare ad opera di Caravaggio, il 28 maggio 1606: infatti, in una deposizione del 2 novembre 1606 il rivale pittore Giovanni Baglione accusò Saraceni e Borgianni «aderenti al Caravaggio» di averlo aggredito tramite un sicario per contrastare, da parte dei caravaggeschi (già allora così indicati), l’elezione del nuovo principe dell’Accademia di S. Luca, pilotata da Baglione in qualità di principe uscente (L. Spezzaferro, Una testimonianza per gli inizi del caravaggismo, in «Storia dell’arte», 1975, n. 23, pp. 53-60; sul tema anche Isabella Salvagni, "Gli «aderenti al Caravaggio» e la fondazione dell’Accademia di San Luca. Conflitti e potere (1593-1627)", in M. Fratarcangeli, a cura di, "Intorno a Caravaggio. Dalla formazione alla fortuna", Roma 2008, pp. 41-74; 83-124). Saraceni emerge come un uomo dal piglio pratico, che tiene saldamente in mano i suoi affari, in testa al movimento caravaggesco a Roma: anche prima del 1610, anno della morte del maestro, come dimostrano proprio Baglione col denunciarlo e il pressoché contemporaneo affidamento da parte dei Carmelitani scalzi di una pala d’altare con la “Morte della Vergine” per sostituire quella ‘scandalosa’ dipinta da Caravaggio nel 1604 su commissione del giurista Laerzio Cherubini per la propria cappella nella chiesa di Santa Maria della Scala. Un atteggiamento tenuto anche nella gestione della bottega e dei commerci: egli eseguiva «abitualmente delle repliche di piccolo formato delle sue opere più famose» in prima persona o affidandole agli allievi, «nel suo atelier di “strada Ripetta verso San Giacomo”». «Ma si trattava di “ricordi” che rimanevano nella bottega a memoria dei più importanti lavori eseguiti? Oppure di una sorta di vetrina o campionario da mostrare ai potenziali clienti che potevano richiedere al pittore altre repliche delle opere visionate? Con ogni evidenza la risposta è affermativa per entrambi i quesiti. Gli originali, le seconde o le terze versioni autografe, i dipinti a quattro mani e le copie da questi derivate contribuivano, assieme alle stampe, a diffondere l’opera dell’artista e ad accrescerne la reputazione su scala europea» (Primarosa, 2018, “L’originale ritrovato. Carlo Saraceni etc”, pp. 73-74). È una prassi comune a molti artistici veneti, da Tiziano a Canova (G. Tagliaferro, “The composition of themes and variations by Titian and his workshop”, in P. Humfrey, a cura di, “Titian. Themes and Variations”, Firenze, 2023, pp. 12-37; P. Mariuz, “Lo studio di Canova a Roma”, in G. Pavanello, a cura di, “Canova. Eterna Bellezza”, Cinisello Balsamo, 2019, pp. 44-55), che vede l’autore consapevole del valore – autonomo e persistente – della propria invenzione, diffusa attraverso uno studiato sistema di variazioni e repliche: in cui varia il coinvolgimento manuale, ma di cui resta indiscutibile e fondamentale la titolarità intellettuale. Ed ha un effetto diretto sul piano attributivo poiché l’autografia, l’autenticità, in questa ottica strettamente aderente alla realtà della bottega, non può più essere ristretta alla esecuzione materiale del lavoro. Nel nostro caso, la bottega stessa va intesa come strumento produttivo di Saraceni. Da questa prospettiva, aggiornata e pungente, è ora possibile esaminare la tela in studio nel catalogo – molto ricco – delle tele saraceniane raffiguranti “Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne”. Essa proviene dalla collezione di Luigi Koelliker, come bene scrive Sergio Benedetti, «without question the most ambititous and passionate collector of Italian paintings today» (Benedetti 2007, p. 127). La restituzione a Saraceni si deve a Mina Gregori, che in una lettera al proprietario, non datata ma antecedente al 2003, offre un primo inquadramento anche per il complesso argomento delle repliche e della loro cronologia: «soggetto prediletto di Carlo Saraceni, e trattato in epoche diverse della sua attività, fu la “Giuditta con la testa di Oloferne assistita dalla fantesca”. Se ne conoscono alcune redazioni più o meno simili, rappresentate da quella, sostanzialmente diversa nello schema, di Dresda, e da quella del Museo di Lione, che sono da ritenersi le più antiche essendovi il gioco delle ombre meno drammatico. Più mature, e da datarsi intorno alla metà del secondo decennio del Seicento, sono le trattazioni autografe, abbastanza simili tra loro, ma con sostanziali varianti, del museo di Vienna (in questa si riconosce, nella testa, di Oloferne, l’autoritratto del pittore) e della Collezione Longhi. A questi due esemplari indiscussi si deve oggi aggiungere la Sua inedita “Giuditta” […] La finezza dell’esecuzione di questo dipinto, la lievità delle ombre e delle luci che sfiorano la testa e lo scollo della protagonista, e rivelano la vecchiezza della fantesca, il particolare, assente nelle altre redazioni, della tenda (di un rosso ciliegia e di una stesura che sono caratteristica del Saraceni) consentono di affermare senza riserve che siamo di fronte a un altro originale del maestro». Concorda con Mina Gregori, Gianni Papi, che torna a più riprese sulla tela Koelliker, dapprima in uno studio inedito, datato nell’archivio Koelliker all’aprile 2003, in cui accosta la tela «strettamente» alla versione Longhi, «reputata unanimemente autografa, insieme a quella del Kunsthistorisches Museum di Vienna, probabilmente di datazione più precoce (si può azzardare l’inizio del secondo decennio […])». Difatti la «redazione in oggetto ripete fedelmente l’iconografia del quadro Longhi […] ma aggiunge in alto a destra il drappo rosso, simile a un sipario che si apre, di caravaggesca ascendenza». Questo motivo – segnala lo studioso - non compare in nessuna delle opere considerate originali o copie nei regesti di Anna Ottani Cavina e Benedict Nicolson (A. Ottani Cavina, “Carlo Saraceni”, Vicenza, 1968, pp. 99, 104-105, 125-127; B. Nicolson, “Caravaggism in Europe”, Torino, 1990, I, pp. 169-170) «mentre due altre versioni di questo tipo – di qualità sicuramente inferiore alla presente – sono documentate da altrettante foto conservate presso la Fondazione Roberto Longhi di Firenze (la prima segnalata genericamente in collezione privata, la seconda in una raccolta di Madrid)». Conclusivamente lo studioso segnala che la «redazione Koelliker è sicuramente la più bella fra le tre che presentano il motivo del drappeggio rosso, ma a mio avviso ciò non è comunque sufficiente per dichiarare la sicura autografia della tela, che mostra una certa meccanicità in alcuni passaggi, come ad esempio le pieghe della bianca camicia di Giuditta o il distendersi un po’ pesante dell’ombra sul suo petto. Dal confronto con la versione autografa più prossima, cioè quella Longhi, si potrà notare come quest’ultima offra una pittura più sfumata, come vi sia più soffice la struttura delle pieghe e più lieve il contorno delle figure, dei tratti delle fisionomie», talché appare, nella versione Koelliker, «l’intervento della bottega del veneziano». Tra il 2003 e il 2005, il dipinto ha subito un accurato intervento di restauro, eseguito da Carlotta Beccaria, che ha rimosso i «numerosi precedenti interventi di restauro sulle lacune» e le «velature di superficie eseguite per unificare le pennellate e rimuovere le linee della craquelure», restituendo morbidezza e leggerezza alle pennellate, particolarmente sul panneggio. A seguito del restauro, Papi ha accettato la piena autografia dell’opera (2005, p. 277: «de todas ellas se deberá destacar la que recientemente ha llegado a la colección Koelliker de Milán, la cual, tras una cuidadosa restauracón, muestra una calidad que, a mi entender, la eleva a una nueva versión original», in spagnolo nel testo originale; 2006, p. 104: «il restauro che ha riguardato il dipinto dopo il suo ingresso nella collezione milanese ha confermato la paternità del pittore veneziano»). Mentre Benedetti (2007, p. 129) legge nell’opera, a fianco al maestro, l’ampio intervento della bottega («executed largely in Carlo Saraceni’s worshop»), John Thomas Spike (2003, cat. 52) ne accetta la piena autografia e la data alla fine della vita dell’artista (1620): «The present “Judith” is the most recent to come to light and gain the consensus of scholars. Its noticeable refinements over the examples in Vienna and in the Longhi Foundation in Florence suggest that this version is the most advanced of the series, executed shortly before the painter’s untimely death in 1620». La datazione non è molto dissimile da quella assegnata da Anna Ottani Cavina al dipinto in collezione Longhi (1618, A. Ottani Cavina, “Carlo Saraceni”, Vicenza, 1968, cat. 14). Spike coglie qui anche un fondamentale elemento di stile, segnalando come Saraceni tratti il tema in modo visibilmente diverso negli anni, dalla precoce versione viennese, in cui egli aveva dipinto il proprio volto nella testa mozzata di Golia, suscitando nell’osservatore un sentimento di suspence e rendendo palpabile la preoccupazione delle donne di essere scoperte, fino alla versione attuale, che suggerisce un senso di «sensuale intimità» («sexual intimacy»). Preferisce una datazione meno inoltrata nel secolo Gianni Papi: «sebbene sia molto difficile avanzare una data sicura, propenderei per una cronologia più precoce e forse intermedia fra il dipinto viennese e quello Longhi: l’opera potrebbe dunque essere stata eseguita in prossimità della metà del secondo decennio» (Papi 2006, p. 104). E’ un periodo in cui il prestigio di Saraceni era ben consolidato a Roma, come testimoniano importanti commissioni per prestigiose pale d’altare per chiese cittadine e della provincia oppure, per esempio, la decorazione della Sala Regia voluta da papa Paolo V in Quirinale, cui l’artista lavora tra il 1616 e 1617. Anche nel catalogo della mostra monografica dedicata all’artista nel 2014 da Maria Giulia Aurigemma, l’opera è accolta come pienamente autografa, nella scheda dedicata da Giulia Coco alla versione della Fondazione Roberto Longhi (Coco 2014, p. 239) e, per la sua grande bellezza, addirittura è l’unica versione riprodotta nella scheda (p. 238): «Ritenuto autentico da Argan, Ottani Cavina, Briganti e Papi è anche il dipinto già in asta Farsetti Prato, oggi in collezione Luigi Koelliker, definito da Mina Gregori “senza riserve […] un altro originale del maestro». «Si tratta di una versione alternativa a quella Longhi» e del «prototipo per due copie segnalate da Ottani Cavina: la prima a Madrid, presso la Galleria Quixquote, identificata da Longhi in un appunto manoscritto come “Prop. Federico Serrano Oriol lista 42 Madrid Abril 1959” (Fototeca Roberto Longhi, inv. 1070262); la seconda nella Galleria Estense di Modena dal 1964 (lascito Ferruccio Cami), ritenuta autentica da Ghidiglia Quintavalle e definita da Ottani Cavina grossolana opera di bottega, caratterizzata da una generale opacità della materia pittorica e da ombre caricate ed effettistiche (Pérez Sánchez 1965, Ottani Cavina 1968). Copie dello stesso autografo sono anche l’esemplare già presso Sotheby’s (1979) e un dipinto noto da una fotografia nella fototeca Giuliano Briganti di Siena (inv. B11319)» (Coco 2014, p. 239). L’opera è autografa di Carlo Saraceni anche per Chiara Marin (comunicazione del 4 marzo 2011, di cui resta registrazione negli archivi della proprietà: «Saraceni»). La piena autografia è accettata, infine, nel contributo più recente sulle versioni saraceniane di “Giuditta e Oloferne”, firmato da Andrea Donati (2016, p. 172): «La “Giuditta” è nota in almeno quattro redazioni autografe: il quadro della Fondazione Longhi di Firenze (olio su tela, cm 95,8 x 77,3, inv.83), dato da Giulia Coco al 1618 (ma la foto stampata riproduce il dipinto Koelliker non quello Longhi!), quello del Kunsthistorisches Museum, quello della raccolta Manusardi (già Finarte, nel 1963) e quello della collezione Koelliker di Milano (olio su tela, cm 92x76,5 cm) proveniente dalla vendita Christie’s, New York, 6 Giugno 1984, Lotto 179», cui lo studioso aggiunge, quale nuova proposta, un dipinto già in collezione belga (proposto in asta a Sotheby’s Parigi il 13 giugno 2023, lotto 21). Donati concorda con Papi sulla datazione, proprio percorrendo a ritroso il ragionamento di Spike sul rapporto con il caravaggismo («John Spike ha datato il dipinto Koelliker verso il 1620, anno della morte di Saraceni, Gianni Papi invece verso il 1615. Anticipare la datazione a mio avviso è più corretto, perché l’invenzione non è la prova finale di un’adesione convinta e netta al caravaggismo, bensì l’esito sperimentale di un soggetto famoso e assai praticato dagli artisti»). Donati svolge anche un acuto insight nel processo creativo dell’opera, comparando la prima versione – dipendente da Lotto – al filone cui appartiene la versione Koelliker, caratterizzata da un aperto richiamo a Caravaggio, modello ormai tanto cercato dal mercato da imporre al concreto Saraceni chiare linee di stile: «Quando Saraceni inventò la “Giuditta” era ormai lontano dal sentimento caravaggesco, ma sapeva che non poteva ignorare un fenomeno di portata europea. Ci voleva dunque una soluzione d’astuzia, che assecondasse forse il desiderio di un cliente esigente, dal gusto moderno, a caccia di un effetto speciale, ma che non tradisse del tutto il modo di sentire del pittore, orientato verso un ripensamento dalla pittura veneta sempre più decisivo. Saraceni doveva competere a Roma in un mercato straordinariamente agguerrito, in cui la pittura caravaggesca era di moda. Il cliente che egli aveva per le mani», cioè il committente del prototipo di questa nuova versione di “Giuditta e Oloferne” «doveva essere uno di coloro che ambivano a questo genere di pittura» (Donati 2016, p. 172). Proprio a partire dal dipinto Koelliker e dagli altri della serie, la scelta di una pittura che ruota intorno al lume della candela, integralmente puntata sui contrasti di luce e sulla drammaticità della scena, segna un passaggio di grande importanza nell’arte del primo Seicento, di cui Saraceni – che qui si gioca tutta l’esperienza fatta presso Adam Elsheimer (1578-1610) nel suo secondo discepolato a Roma e in rapporto al Merisi – è protagonista e apripista per la grande avventura del caravaggismo settentrionale, basti per esempio pensare a Honthorst. Vale la pena di accennare a questo punto ad un piccolo mistero, nel già complesso sistema delle repliche organizzato da Saraceni. L’intera bibliografia – Spike (2003), Papi (2005 e 2006), Coco (2014) e Donati (2017) – identifica il dipinto Koelliker con la versione passata in asta da Christie’s New York il 6 giugno 1984 (lotto 179, con misure leggermente diverse dalla tela Koelliker: 91,3x73,5 cm contro 92x76,5 cm), suffragata, come si legge nel catalogo d’asta da «a certificate from G. C. Argon [= Argan] and letters from Giuliano Briganti (1980) and Anna Ottani Cavina (1981), all stating the painting to be an autograph work by Carlo Saraceni». L’opera Christie’s è anche citata al n. 28 da Giuliano Briganti nel volumetto “Mostra di Pittori Italiani del Seicento”, apparso a Roma nel 1944, presso il mitico Studio d’Arte Palma (fondato da Pietro Maria Bardi nel maggio 1944, a poche settimane dalla Liberazione, come tentativo di coniugare attività espositive, mercantili e di centro di restauro). Tuttavia, comparando l’immagine a colori in catalogo ed anche una foto in bianco e nero conservata presso la fototeca di Benedict Nicolson (Kunsthistorisches Institut, Firenze, scheda 419902, negativo 17.545), la tela apparsa a Christie’s differisce dalla tela Koelliker per alcuni minuti dettagli, e quindi l’identità dei due dipinti, pur solida in letteratura, ci appare questionabile: per esempio, il pollice in vista nella mano che regge la candela, mentre esso è ripiegato e non visibile nella versione Koelliker; il pendente, la spilla e la catena dorata di Giuditta maggiormente in ombra e solo in parte visibili nella versione Koelliker; ed il decoro sul braccio di Giuditta, invece, meno visibile nella tela Christie’s. Ne deriva che, della particolare composizione con la tenda rossa, individuata da Papi (2003, 2006) e di cui l’opera in esame è il prototipo autografo, vi siano quantomeno sei repliche o copie (le due note a Papi, 2003, e precisate da Anna Ottani Cavina, cioè l’opera già in collezione Giuliano Briganti e quella nella collezione madrilena Serrano Oriol, e inoltre la tela della Galleria Estense di Modena, una tela apparsa a Sotheby’s nel 1979 – se diversa da –, una tela presso Robilant & Voena, la tela apparsa a Sotheby’s nel 2023 e pubblicata da Donati nel 2016), se non sette, qualora l’opera Christie’s sia altra da quella Koelliker, il che attesta la grande fortuna di questa soluzione. Osservando il quadro in modo ravvicinato emergono piccoli aggiustamenti nella figura della fantesca (per esempio, il naso e il dito in vista, mentre sotto la testa di Oloferne sembra emergere un disegno carbonioso a profilare parte dell’ovale e sotto le orbite di Giuditta, forse, accenni di un disegno a pennello. Maria Giulia Aurigemma ha confermato l'opinione in favore dell'autografia già espressa nel catalogo del 2014 a sua cura (comunicazione del 20 dicembre 2023) e Gianni Papi ha ribadito la piena autografia dell’opera già espressa nella sua pubblicazione del 2006 (comunicazione del 24 ottobre 2023). Ringraziamo i Professori Maria Giulia Aurigemma e Gianni Papi per il prezioso supporto nella catalogazione dell’opera.
Carlo Saraceni (1579 - 1620) , e bottega "Madonna con Bambino, sant’Anna e angelo", detta anche "Madonna del sonno" o "Un angelo veglia il Bambin Gesù con la Vergine e sant’Elisabetta", 1610-1615 Olio su tela 89,5 x 125 cm Elementi distintivi: sulla cornice al verso, in pennarello nero, «LK1516»; sull’asse superiore del telaio, in pennarello nero, «LI»; sull’asse inferiore, etichetta battuta a macchina, applicata con tre puntine «"MADONNA CON BAMBINO, S. GIOVANNINO E S.ANNA" di Saraceni. (Acquistato all’asta della Galleria IL PRATO di Firenze il 20/11/70 per £.507.060)» Provenienza: Giovan Angelo Altemps (1587-1620; inv. del 1618-1619, «un quadro grande» di «Carlo Venetiano» raffigurante «la Madonna, Santa Elisabetta e Nostro Signore con un angiolo») ?; Galleria Il Prato, Firenze, 20.11.1970; Collezione Koelliker (novembre 2002) Bibliografia: G. Papi, scheda in, G. Papi, a cura di, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", catalogo della mostra, a cura di G. Papi, Milano 2006, pp. 106-107, cat. 25 (Saraceni); S. Benedetti," The 'schola' of Caravaggio. Ariccia", «The Burlington Magazine», CIL, feb. 2007, p. 129 (Saraceni e bottega); Y. Primarosa, "L’originale ritrovato. Carlo Saraceni e l’ "Angelo che veglia il Bambino Gesù con la Vergine e sant’Anna” tra repliche autografe, derivazioni e copie", in P. Di Loreto, a cura di, "Originali, repliche, copie. Uno sguardo diverso sui Grandi Maestri", Roma, 2018, pp. 174-180 (collaboratori di Saraceni, su prototipo di Saraceni); Y. Primarosa, "Nuova luce su Carlo Saraceni: La Madonna del Pilar di S. Maria in Monserrato e altri inediti", in «Storia dell’Arte», Inverno 2018, pp. 73-74 e 75 nn. 18-19, (collaboratori di Saraceni, su prototipo di Saraceni) Esposizioni: G. Papi, a cura di, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", (Ariccia, Palazzo Chigi), 13 ottobre 2006 - 11 febbraio 2007, Ariccia, Palazzo Chigi Stato di conservazione. Supporto: 80% (reintelo; riduzione di alcuni centimetri sul lato sinistro) Stato di conservazione. Superficie: 85% (cadute di colore diffuse, anche sui visi; forse uno sfondamento della tela; riprese pittoriche e vernice protettiva, anche sulla testa del Bambino) Il veneziano Carlo Saraceni (1579 circa –1620) fu uno dei primi seguaci di Caravaggio, cui, per usare le parole di Roberto Longhi, diede una interpretazione «neo-giorgionesca» fondendo il realismo del maestro lombardo con la pittura tonale di impronta veneta. Giunge a Roma nel 1598 dove frequenta la bottega dello scultore vicentino Camillo Mariani (1567-1611) per passare presto a servizio del pittore tedesco Adam Elsheimer (1578-1610). Tra il 1609 e il 1610 dipinge il “Transito della Vergine”, preferito dai Carmelitani scalzi alla “Morte della Vergine” di Caravaggio, per decorare seconda cappella a sinistra della chiesa trasteverina di Santa Maria della Scala. Come testimoniano altre prestigiose committenze – dalla decorazione a fresco della sala regia del Quirinale alle tele per San Lorenzo in Lucina e Santa Maria dell’Anima, sino al telero raffigurante “Enrico Dandolo e i capitani crociati” per la sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale a Venezia – Saraceni fu eccezionale pittore ma anche grande promotore della propria opera. Secondo una brillante intuizione di Yuri Primarosa, egli eseguiva «abitualmente delle repliche di piccolo formato delle sue opere più famose» in prima persona o affidandole agli allievi, «nel suo atelier di “strada Ripetta verso San Giacomo”». «Ma si trattava di “ricordi” che rimanevano nella bottega a memoria dei più importanti lavori eseguiti? Oppure di una sorta di vetrina o campionario da mostrare ai potenziali clienti che potevano richiedere al pittore altre repliche delle opere visionate? Con ogni evidenza la risposta è affermativa per entrambi i quesiti. Gli originali, le seconde o le terze versioni autografe, i dipinti a quattro mani e le copie da questi derivate contribuivano, assieme alle stampe, a diffondere l’opera dell’artista e ad accrescerne la reputazione su scala europea» (Primarosa, 2018, “L’originale ritrovato. Carlo Saraceni etc”, pp. 73-74). Il giovane studioso disegna così per Saraceni una prassi comune a molti artistici veneti, quantomeno da Tiziano a Canova (G. Tagliaferro, “The composition of themes and variations by Titian and his workshop”, in P. Humfrey, a cura di, “Titian. Themes and Variations”, Firenze, 2023, pp. 12-37; P. Mariuz, “Lo studio di Canova a Roma”, in G. Pavanello, a cura di, “Canova. Eterna Bellezza”, Cinisello Balsamo, 2019, pp. 44-55), che vede l’autore consapevole del valore – autonomo e persistente – della propria invenzione, diffusa attraverso uno studiato sistema di variazioni e repliche: in cui varia il coinvolgimento manuale, ma di cui resta indiscutibile e fondamentale la titolarità intellettuale. Appare questo, oggi, il più aggiornato punto di vista per affrontare anche la «analisi comparata delle numerose repliche della Madonna del sonno […,] un caso studio di grande interesse, trattandosi fuor di dubbio dell’invenzione più copiata» di Carlo Saraceni (ibidem, p. 74). Sono ben dodici le opere – oggi note – testimoni di questa invenzione, stesure originali e repliche realizzate da Saraceni o quantomeno sotto il suo diretto controllo, nonché copie. Tre di esse – oggi all’Honolulu Museum of Fine Arts, al Museé Fesh e in collezione privata con provenienza da Giancarlo Baroni – sono su rame, tecnica impiegata anche in una quarta versione, nella collezione di Aldo Briganti nel 1948 e ora dispesa (Letizia Treves, scheda 32, in Maria Giulia Aurigemma, a cura di, “Carlo Saraceni. 1579-1620. Un Veneziano tra Roma e l’Europa, Roma, 2014, pp. 233-235). Otto, invece, sono su tela: due connesse a collezioni nobiliari (Pallavicini e Altemps), due in collocazione pubblica (Muzeum Narodowe di Varsavia e Badia della Trinità a Cava dei Tirreni) e due in collezione privata (una a Roma e l’altra già in asta con Samuel T. Freeman & Co., 10 luglio 2021, l. 91), oltre al dipinto in esame, che proviene dalla collezione di Luigi Koelliker, come bene scrive Sergio Benedetti, «without question the most ambititous and passionate collector of Italian paintings today» (Benedetti 2007, p. 127). Il dipinto è stato reso noto da Gianni Papi, nella mostra “La “schola” del Caravaggio. Dipinti dalla Collezione Koelliker“, tenutasi a Palazzo Chigi, ad Ariccia, nel 2006. Lo studioso, in ragione della «qualità sostenuta in tutta la superficie pittorica», la ritiene «una redazione autografa», opinione ribadita anche da ultimo con comunicazione del 24 ottobre 2023. Sergio Benedetti, nella recensione sistematica della mostra, ne completa la definizione attributiva osservando l’intervento della bottega («appear to have been largely executed in Carlo Saraceni’s workshop», Benedetti 2007, p. 129). Della stessa opinione Maria Giulia Aurigemma, che considera l’opera una ottima «replica di bottega sotto lo stretto controllo e con intervento del Maestro, secondo una prassi consueta» (comunicazioni del 2 novembre e del 20 dicembre 2023). La collocazione tra le versioni prodotte dalla bottega di Saraceni è accettata da Yuri Primarosa («bottega, non copia», comunicazione del 18 dicembre 2023) e Chiara Marin (comunicazione del 4 marzo 2011, riportata in forma sintetica negli archivi della proprietà: «Penso che l’autore faccia parte della cerchia stretta degli allievi del Saraceni a Roma e l’allure francese, che mi è sembrato di poter individuare, mi fa pensare a Guy François»). Letizia Treves ha efficacemente distinto queste opere – prototipi, repliche e copie – secondo tre famiglie con leggere differenze, che confermano come le varianti dell’idea siano state orchestrate nella bottega: le «composizioni sono simili, pur mostrando piccole differenze in alcuni dettagli, quali la parte superiore della canna di bambù in mano alla sant’Anna, l’orlo blu del suo copricapo, e le pieghe del panneggio giallo». Treves identifica due versioni primarie, il rame di Honolulu (con «la canna di bambù più corta e meno dettagliata, e con il copricapo privo dell’orlo blu») e il rame ex collezione Baroni (con «la canna più lunga e più definita, e con il copricapo munito dell’orlo blu»), da cui derivano due famiglie di repliche e copie mentre una terza famiglia, rappresentata dal rame di Ajaccio, «unisce elementi delle due prime categorie», il che fa pensare che le due versioni primarie «siano state nello studio di Saraceni contemporaneamente». All’esito del ragionamento, ad un certo punto modelli di tutte e tre le rappresentazioni si devono essere trovati presso la bottega del Saraceni (Letizia Treves 2014, p. 235). E rispetto all’ineguale esito materiale, il piano ideativo si conferma il tratto davvero caratterizzante: «Nonostante l’esecuzione spesso rozza delle copie e delle varianti sopra elencate, la raffinatezza e la complessità della composizione originale del Saraceni appaiono evidenti» (Letizia Treves 2014, p. 235). Fino alla nitida intuizione di Yuri Primarosa, in parte anticipata dalle osservazioni appena esposte di Letizia Treves, il rapporto tra prototipi, repliche e copie è stato interpretato in modo slegato: come dipinti che apparivano all’orizzonte della storia dell’arte con una certa casualità e senza alcuna intenzionalità comune. Osservandoli sia come strumenti di promozione sia come prodotti finali per i diversi committenti e mercati, il ruolo di Saraceni – autore sempre dell’idea, “l’inventio” – e della bottega, esecutrice in modo più o meno esteso della produzione materiale – assumono un nuovo livello di organicità, con risvolti importanti sul piano attributivo. In altre parole, quali prodotti Saraceni voleva proporre sotto il suo nome, o il suo marchio? Che livello di qualità dovevano raggiungere? Ed oggi in che modo la critica si misura con queste opere? Tralasciando le copie, caratterizzate da una qualità nettamente più bassa (è il caso, per esempio, del dipinto passato presso Samuel T. Freeman & Co. nel 2021), la critica non è affatto concorde sulle opere a cui attribuire il ruolo di prototipi e/o la piena autografia. Per Treves, si è visto, autografi sono sostanzialmente solo i due rami di Honolulu ed ex Baroni. Gianni Papi considera autografe le versioni Koelliker, qui in esame, e quella del Muzeum Narodowe di Varsavia. Quest’ultima è ritenuta una replica da Bialostoski (1956, pp. 94-95, n. 83); Anna Ottani nel 1968 – da una riproduzione fotografica – non esclude che sia «addirittura autograf [a] data la sua qualità non comune»; Nicholson (1979, 1990, I, p. 171) la considera «original or good replica», mentre per Treves è una copia. Nel 1990, Anna Ottani identificò il prototipo della serie nel rame di Honolulu (al tempo sul mercato), ritenendo tuttavia probabile che Saraceni «avesse personalmente eseguito della medesima composizione anche una versione più grande, su tela» (come in Papi 2006, p. 106). Parimenti considerò il rame ex Baroni una copia dal rame di Honolulu, ma «a seguito di un più recente studio di questa opera, l’autrice ha rivisto la sua opinione facendo notare non soltanto che la sua qualità è notevolmente superiore a quella di tutte le altre varianti e copie conosciute, ma che mostra un grado di raffinatezza totalmente assente nelle altre versioni. In particolare il dipinto ex-Baroni differisce in numerosi dettagli dal rame di Honolulu, e non può quindi essere considerata come una mera copia pedissequa ma piuttosto in quanto variante di altissima qualità esecutiva all’interno stesso della bottega del Saraceni, molto probabilmente con l’intervento del maestro stesso» (Treves 2014, p. 235). A sua volta, Primarosa, in due contributi del 2018 che svolgono l’articolato ragionamento già esposto sulla finalità delle repliche saraceniane, identifica «il fortunato prototipo in “tela d’imperatore”», il «primo originale» in un dipinto in collezione privata, già appartenuto al duca Giovan Angelo Altemps (1587-1620). Proprio l’inventario dei beni del duca, redatto verso il 1618-1619, consente a Primarosa di chiarificare il soggetto: è registrato infatti «un quadro grande» di «Carlo Venetiano» raffigurante «la Madonna, Santa Elisabetta e Nostro Signore con un angiolo». «Non è dunque Anna, come sinora ritenuto, ma verosimilmente Elisabetta a rivolgersi alla Vergine al cospetto del Bambino addormentato: un’epifania sacra nella forma di una visione mistica del figlio di Dio, annunciato a Maria dall’arcangelo Gabriele e dalla stessa Elisabetta durante la Visitazione» (Primarosa, “Nuova luce su Carlo Saraceni…”, p. 74). Se l’inventario è davvero traccia del corretto soggetto, esso acquista una originalità intellettuale spiccata, e la coperta che l’Angelo sta ponendo su Gesù diventa piuttosto un velo che scopre il Salvatore del mondo. Vale la pena di osservare che la menzione nell’inventario Altemps identificata da Primarosa –“tela d’imperatore”, ossia 130x90 cm, si attaglia perfettamente sia alla tela da lui pubblicata (94x130 cm), sia al dipinto Kolliker, qui in esame (89,5x125 cm), sia alle tele di Varsavia (92,5x127 cm) e Pallavicini (97,3 x 134,5 cm), presentando tuttavia queste ultime due marcate caratteristiche di copia. Abbiano quindi soltanto tre opere - tutte di altissima qualità e comunque certamente realizzate nella bottega del maestro - che secondo la critica aspirano al rango di invenzione originale e/o alla piena autografia, il rame di Honolulu (Ottani, Treves), la tela connessa all’inventario Altemps nel 2018 (Primarosa) e la tela Koelliker (Papi). Sottolinea Papi, circa la tela in esame, che «la diffusa qualità (solo offuscata da qualche svelatura) trova momenti particolarmente significativi nel volto di profilo di sant’Anna, con la cuffia dal soffice cotone, brani tipicamente saraceniani, come quello del Bambino Gesù adagiato su un giaciglio di fasce virtuosisticamente intrecciate secondo viluppi serpentinati, nel modo tipico del pittore veneziano». La cronologia proposta dallo studioso è coerente con quella indicata da Ottani e Treves per il rame di Honolulu (poco dopo il 1610 ca): «Nella problematica cronologia del Saraceni, segnata da pochissimi punti fermi, il quadro potrebbe occupare una posizione nei primi anni del secondo decennio, quando il naturalismo caravaggesco che si spiegherà apertamente nelle tele del 1617-1618 di Santa Maria dell’Anima e di San Lorenzo in Lucina sembra ancora piuttosto lontano; così la “Madonna del Sonno” potrebbe semmai accostarsi al “Martirio di santa Cecilia” di Princeton, alle tele dipinte per la cattedrale di Toledo, del 1613-1614, al “Ritrovamento di Mosé” della Fondazione Longhi» (Papi 2006, p. 106). Essenziale ora l’osservazione ravvicinata della tela in esame anche in rapporto alle altre versioni. Innanzitutto, balza all’occhio un vistoso pentimento sulla testa della anziana, di cui l’orecchio in vista risulta dipinto due volte e spostato. Parimenti il fazzoletto da capo, dietro al collo, risulta in parte ricoperto per accentuare il distacco del fiocco dalla carne e rendere più squillante il bianco; la pittura sporca di nero sopra la pelle del collo è un abile gioco di realismo tipicamente caravaggesco (riscontrabile, per esempio, nella “Madonna dei Pellegrini”; mentre la mano della Vergine protesa verso l’osservatore è una chiara citazione della “Cena in Emmaus”, oggi alla National Gallery); i capelli del Bambino sono in parte dipinti sulla fascia bianca di Maria e la sua mano destra, resa in modo piuttosto geometrico, sembra esser stata leggermente riposizionata; la mano sinistra dell’angelo regge una parte della stola rossa; mentre la mano destra presenta piccole correzioni al mignolo, all’anulare e al dorso. Quasi invisibile è il nimbo del Bambino. Confrontando il dipinto Koelliker con le altre opere, va notato che il dipinto di Honolulu è leggermente più esteso sulla sinistra, accentua l’espressività nei volti e mostra un diverso trattamento della veste della vecchia, più aperta e integralmente bordata di bianco sul collo, nonché il bastone più corto e il fazzoletto senza orlo colorato: si legge tuttavia, anche se non molto accentuato, il pentimento all’orecchio. Il dipinto in collezione privata romana (Fototeca Zeri n. 45980) presenta lo stesso pentimento all’orecchio (tuttavia non bene compreso dall’esecutore) nonché il fazzoletto da capo della anziana bordato di azzurro, ma il bastone termina in un legno spaccato, come il rame già in collezione Baroni. Di quest’ultimo è completamente diversa l’espressione sul volto del Bambino e sono meno accentuate le ombre proiettate dai piedi, con un evidente pentimento sul piede ripiegato all’interno, così come sulla spalla, che potrebbe essere stata ridotta anche nel dipinto in esame: le anatomie sono in generale molto curate (si veda per esempio il sedere del Bambino). Anche nel dipinto Baroni risulta molto evidente il pentimento sull’orecchio della anziana, invece scarsamente leggibile nel dipinto di Ajaccio, qualitativamente meno rilevante degli altri due rami e con un chiaro effetto di copia. Il dipinto del Muzeum Narodowe non presenta il pentimento all’orecchio né alla mano destra dell’angelo, pur appartenendo alla cosiddetta serie con il fazzoletto bordato: si collega al rame ex Baroni per l’elemento del bastone fratto. È un po’ più esteso sul lato inferiore e presenta una maggiore leggibilità delle parti in ombra. Il dipinto collegato nel 2018 all’inventario Altemps parimenti non presenta il pentimento sull’orecchio, mostra tuttavia il bastone intero (come l’opera in esame), e nel complesso le anatomie sono meno auliche e sospese e più intense e coinvolte (Maria nel dolore presagito e Elisabetta-Anna nella interrogazione), così come i panneggi. Soprattutto il copricapo dell’anziana continua sul petto e poi dietro le spalle; ed anche il drappo sul braccio sinistro sembra essere un autonomo pezzo di tessuto rispetto al vestito. Probabilmente per dare spazio a tale sviluppo, è più esteso a destra. Maggiore, si può dire, è in quest’ultimo quadro il gusto per il dettaglio disegnativo: si confrontino per esempio, con l’opera in studio, le pieghe del lenzuolo teso alle spalle di Cristo, e le ali dell’angelo. Diversa anche l’espressione della bocca, che si apre in una parola nel dipinto in esame, mentre appare quasi serrata nell’opera in confronto; la stessa torsione delle teste delle due donna appare leggermente diversa, quasi ad avvicinarle. Di esso è copia il dipinto della Galleria Pallavicini, in cui le fisionomie appaiono più caricate e marcatamente “romane”, il grafismo si accentua e maggiori sono le distanze dal neo-giorgionismo, anche luministico, di Saraceni: è forse l’esempio di una copia esterna alla bottega. Anche considerando soltanto le varianti del bastone, del collo della veste della anziana, del suo copricapo, colorato o meno, ed esteso sulla spalla, ed infine il raddoppiamento sull’orecchio – visibile in modo del tutto peculiare nel dipinto in esame – la combinazione degli elementi costituisce i dipinti in una rete inestricabile, che rafforza per tutti la definizione di Carlo Saraceni (inventore sempre e talvolta, in tutto o in parte, esecutore) e bottega (quest’ultima con un ruolo materiale più o meno esteso). Certo è che la versione in studio presenta varianti significative rispetto a tutte le altre versioni note, oltre che una qualità esecutiva particolarmente alta. Ringraziamo i Professori Maria Giulia Aurigemma e Gianni Papi e il Dottor Yuri Primarosa per il prezioso supporto nella catalogazione dell’opera.
Carlo Saraceni (1579 - 1620) Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne Olio su tela 92 x 76,5 cm Elementi distintivi: al verso della cornice, timbro dello specialista in cornici "FRANCO SABATELLI"; scritta "LL" in gesso e due etichette bianche stampate in inchiostro nero «CARAVAGGIO & HIS WORLD. Art Gallery of New South Wales: 29 November 2003 – 22 February 2004; National Gallery of Victoria: 11 March – 30 May 2004. Cat. No. 52. Carlo Saraceni, Judith with the head of Holofermes. Collezione Koelliker», in inchiostro blu e poi compilata in penna «piccin trasporti d’arte s.r.l. MOSTRA: “CARAVAGGIO & HIS WORLD” – AUSTRALIA; TITOLO DELL’OPERA: SARACENI, “GIUDITTA CON LA TESTA DI OLOFERNE” COD. LK. 0908; PROPRIETA’: KOELLIKER / MI – CASSA NR. 18 -»; nastro adesivo bianco in penna nera «K 13 PRA??»; sull’asse mediano orizzontale del telaio, in pennarello nero «LK0908»; tracce di una etichetta rimossa Provenienza: Collezione privata; Christie’s, New York ("Important Paintings by Old Masters", 6 giugno 1984, lot 179, Saraceni) (?); Farsetti, Prato (14 maggio 2002, l. 1065, Saraceni); Collezione Koelliker (novembre 2002) Bibliografia: G. Briganti, “Mostra di Pittori Italiani del Seicento”,Roma, 1944, n. 28 (?); Christie’s, "Important Paintings by Old Masters", lotto 179, 6 giugno 1984, New York (?); J. T. Spike, scheda, in J. Blunden, a cura di, "Caravaggio & his world: darkness & light", catalogo della mostra, (Syndey, Art Gallery of New South Wales; Melburne, National Gallery of Victoria), Sydney 2003, pp. 182-183, cat. 52 (Saraceni, 1620); G. Papi, scheda, in J. Milicua, a cura di, "Caravaggio y la pintura", catalogo della mostra, (Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya), Barcellona 2005, p. 277 (Saraceni); G. Papi, scheda, in G. Papi, a cura, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", catalogo della mostra (Ariccia, Palazzo Chigi), Milano 2006, pp. 102-105 n. 24 (Saraceni, verso il 1615); S. Benedetti," The 'schola' of Caravaggio. Ariccia", «The Burlington Magazine», CIL, feb. 2007, p. 129 (Saraceni e bottega); G. Coco, scheda n. 34, in M. G. Aurigemma, a cura di, "Carlo Saraceni 1579-1620. Un Veneziano tra Roma e l'Europa", catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia), 2014, pp. 239, ill. p. 238 (Saraceni); A. Donati, "Una Giuditta di Saraceni e una Vanità di Cagnacci", in «Arte/Documento», n. 33, 2016, pp. 172 (Saraceni, verso il 1615) Esposizioni: J. Blunden, a cura di, "Caravaggio & his world: darkness & light", Syndey, Art Gallery of New South Wales; Melburne, National Gallery of Victoria, 2003, cat. 52; G. Papi, a cura, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", catalogo della mostra (Ariccia, Palazzo Chigi), Milano 2006, pp. 102-105 n. 24 Certificati: lettera di Mina Gregori (come Carlo Saraceni; copia fotostatica); scheda di Gianni Papi (come Carlo Saraceni e Bottega, aprile 2003; copia fotostatica) Stato di conservazione. Supporto: 90% (in prima tela, con alcuni sfondamenti opportunamente suturati) Stato di conservazione. Superficie: 80% (cadute di colore, integrazioni e ritocchi, vernice protettiva) La “Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne” del veneziano Carlo Saraceni (1579 circa –1620), invenzione tra le più fortunate del primo caravaggismo che osserviamo qui in un prototipo autografo, rielabora due opere capitali del Merisi - la “Giuditta” di Palazzo Barberini (1602), di cui è citata la testa della vecchia, e “Davide con la testa di Golia” della Galleria Borghese (1609-1610), che fa da modello per il capo mozzato – letteralmente, in una luce nuova, costruita intorno ad una candela: la luce interna, notturna, del tenebroso caravaggismo nordico. Poco dopo il 1610, secondo la critica Saraceni elabora una prima versione del soggetto “rieditando” un prezioso dipinto di Lorenzo Lotto di un secolo prima (è datato 1512, collezione BNL) in due opere conservate alla Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda e ai Musei Civici di Verona. Poi sterza verso il naturalismo, e rappresenta – in una tela conservata presso il Kunsthistorisches Museum di ideazione completamente nuova - se stesso nella testa mozzata di Oloferne, come Caravaggio aveva fatto nel “Davide e Golia”, e Giuditta e la fantesca quasi costrette in uno spazio esiguo e drammatico (la fantesca addirittura tiene sollevato con i denti il sacco in cui viene riposta la testa), primariamente definito dall’irradiarsi della luce. Questa invenzione ha una potenza dirompente, e non smette di affascinare i pittori e i collezionisti ben oltre i confini d’Italia e i 41 anni di vita concessi a Saraceni: Anna Ottani Cavina, alla voce “Saraceni”, ultimata nel 2017, del “Dizionario Biografico degli Italiani”, ricorda che sono decine i dipinti riconducibili a questo modello: la cui diffusione in repliche e copie punteggia così lo sviluppo del Caravaggismo, soprattutto nel suo transito verso il Nord Europa, sino alle versioni introdotte da David Teniers il Giovane (1610-1690) nei suoi famosi “cabinets d’amateur”. Delle moltissime versioni esistenti, le prime e principali – tra cui il dipinto in esame – vengono create tutte nella bottega e sotto la regia, se non dalla mano, di Saraceni, che ne definisce le principali varianti: lo sviluppo delle quali, paradossalmente, testimonia – insieme all’espansione del naturalismo – la progressiva distanza dal maestro. Il complesso impiego di prototipi, repliche con varianti e copie messo in atto da Carlo Saraceni nella propria bottega quantomeno a partire dagli anni dieci del Seicento è bene illustrato da Yuri Primarosa in due recenti contributi ("L’originale ritrovato. Carlo Saraceni e l’ "Angelo che veglia il Bambino Gesù con la Vergine e sant’Anna” tra repliche autografe, derivazioni e copie", in P. Di Loreto, a cura di, "Originali, repliche, copie. Uno sguardo diverso sui Grandi Maestri", Roma, 2018, pp. 174-180 e "Nuova luce su Carlo Saraceni: La Madonna del Pilar di S. Maria in Monserrato e altri inediti", in «Storia dell’Arte», Inverno 2018, pp. 73-74 e 75 nn. 18-19). Saraceni, giunto a Roma nel 1598 e subito entrato nella vita artistica cittadina, prima appoggiandosi allo scultore vicentino Camillo Mariani (1567-1611) e poi al pittore tedesco Adam Elsheimer (1578-1610), si guadagna rapidamente l’amicizia di Caravaggio di cui, per parafrasare Manzoni e Longhi insieme, lava il realismo e i violenti chiaroscuri nel tonalismo neo-giorgionesco della laguna veneta. È un rapporto che si può seguire nella evoluzione dello stile, nella scelta dei soggetti e persino nelle carte processuali, a proposito dell’omicidio di Ranuccio Tomassoni, a quanto pare ad opera di Caravaggio, il 28 maggio 1606: infatti, in una deposizione del 2 novembre 1606 il rivale pittore Giovanni Baglione accusò Saraceni e Borgianni «aderenti al Caravaggio» di averlo aggredito tramite un sicario per contrastare, da parte dei caravaggeschi (già allora così indicati), l’elezione del nuovo principe dell’Accademia di S. Luca, pilotata da Baglione in qualità di principe uscente (L. Spezzaferro, Una testimonianza per gli inizi del caravaggismo, in «Storia dell’arte», 1975, n. 23, pp. 53-60; sul tema anche Isabella Salvagni, "Gli «aderenti al Caravaggio» e la fondazione dell’Accademia di San Luca. Conflitti e potere (1593-1627)", in M. Fratarcangeli, a cura di, "Intorno a Caravaggio. Dalla formazione alla fortuna", Roma 2008, pp. 41-74; 83-124). Saraceni emerge come un uomo dal piglio pratico, che tiene saldamente in mano i suoi affari, in testa al movimento caravaggesco a Roma: anche prima del 1610, anno della morte del maestro, come dimostrano proprio Baglione col denunciarlo e il pressoché contemporaneo affidamento da parte dei Carmelitani scalzi di una pala d’altare con la “Morte della Vergine” per sostituire quella ‘scandalosa’ dipinta da Caravaggio nel 1604 su commissione del giurista Laerzio Cherubini per la propria cappella nella chiesa di Santa Maria della Scala. Un atteggiamento tenuto anche nella gestione della bottega e dei commerci: egli eseguiva «abitualmente delle repliche di piccolo formato delle sue opere più famose» in prima persona o affidandole agli allievi, «nel suo atelier di “strada Ripetta verso San Giacomo”». «Ma si trattava di “ricordi” che rimanevano nella bottega a memoria dei più importanti lavori eseguiti? Oppure di una sorta di vetrina o campionario da mostrare ai potenziali clienti che potevano richiedere al pittore altre repliche delle opere visionate? Con ogni evidenza la risposta è affermativa per entrambi i quesiti. Gli originali, le seconde o le terze versioni autografe, i dipinti a quattro mani e le copie da questi derivate contribuivano, assieme alle stampe, a diffondere l’opera dell’artista e ad accrescerne la reputazione su scala europea» (Primarosa, 2018, “L’originale ritrovato. Carlo Saraceni etc”, pp. 73-74). È una prassi comune a molti artistici veneti, da Tiziano a Canova (G. Tagliaferro, “The composition of themes and variations by Titian and his workshop”, in P. Humfrey, a cura di, “Titian. Themes and Variations”, Firenze, 2023, pp. 12-37; P. Mariuz, “Lo studio di Canova a Roma”, in G. Pavanello, a cura di, “Canova. Eterna Bellezza”, Cinisello Balsamo, 2019, pp. 44-55), che vede l’autore consapevole del valore – autonomo e persistente – della propria invenzione, diffusa attraverso uno studiato sistema di variazioni e repliche: in cui varia il coinvolgimento manuale, ma di cui resta indiscutibile e fondamentale la titolarità intellettuale. Ed ha un effetto diretto sul piano attributivo poiché l’autografia, l’autenticità, in questa ottica strettamente aderente alla realtà della bottega, non può più essere ristretta alla esecuzione materiale del lavoro. Nel nostro caso, la bottega stessa va intesa come strumento produttivo di Saraceni. Da questa prospettiva, aggiornata e pungente, è ora possibile esaminare la tela in studio nel catalogo – molto ricco – delle tele saraceniane raffiguranti “Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne”. Essa proviene dalla collezione di Luigi Koelliker, come bene scrive Sergio Benedetti, «without question the most ambititous and passionate collector of Italian paintings today» (Benedetti 2007, p. 127). La restituzione a Saraceni si deve a Mina Gregori, che in una lettera al proprietario, non datata ma antecedente al 2003, offre un primo inquadramento anche per il complesso argomento delle repliche e della loro cronologia: «soggetto prediletto di Carlo Saraceni, e trattato in epoche diverse della sua attività, fu la “Giuditta con la testa di Oloferne assistita dalla fantesca”. Se ne conoscono alcune redazioni più o meno simili, rappresentate da quella, sostanzialmente diversa nello schema, di Dresda, e da quella del Museo di Lione, che sono da ritenersi le più antiche essendovi il gioco delle ombre meno drammatico. Più mature, e da datarsi intorno alla metà del secondo decennio del Seicento, sono le trattazioni autografe, abbastanza simili tra loro, ma con sostanziali varianti, del museo di Vienna (in questa si riconosce, nella testa, di Oloferne, l’autoritratto del pittore) e della Collezione Longhi. A questi due esemplari indiscussi si deve oggi aggiungere la Sua inedita “Giuditta” […] La finezza dell’esecuzione di questo dipinto, la lievità delle ombre e delle luci che sfiorano la testa e lo scollo della protagonista, e rivelano la vecchiezza della fantesca, il particolare, assente nelle altre redazioni, della tenda (di un rosso ciliegia e di una stesura che sono caratteristica del Saraceni) consentono di affermare senza riserve che siamo di fronte a un altro originale del maestro». Concorda con Mina Gregori, Gianni Papi, che torna a più riprese sulla tela Koelliker, dapprima in uno studio inedito, datato nell’archivio Koelliker all’aprile 2003, in cui accosta la tela «strettamente» alla versione Longhi, «reputata unanimemente autografa, insieme a quella del Kunsthistorisches Museum di Vienna, probabilmente di datazione più precoce (si può azzardare l’inizio del secondo decennio […])». Difatti la «redazione in oggetto ripete fedelmente l’iconografia del quadro Longhi […] ma aggiunge in alto a destra il drappo rosso, simile a un sipario che si apre, di caravaggesca ascendenza». Questo motivo – segnala lo studioso - non compare in nessuna delle opere considerate originali o copie nei regesti di Anna Ottani Cavina e Benedict Nicolson (A. Ottani Cavina, “Carlo Saraceni”, Vicenza, 1968, pp. 99, 104-105, 125-127; B. Nicolson, “Caravaggism in Europe”, Torino, 1990, I, pp. 169-170) «mentre due altre versioni di questo tipo – di qualità sicuramente inferiore alla presente – sono documentate da altrettante foto conservate presso la Fondazione Roberto Longhi di Firenze (la prima segnalata genericamente in collezione privata, la seconda in una raccolta di Madrid)». Conclusivamente lo studioso segnala che la «redazione Koelliker è sicuramente la più bella fra le tre che presentano il motivo del drappeggio rosso, ma a mio avviso ciò non è comunque sufficiente per dichiarare la sicura autografia della tela, che mostra una certa meccanicità in alcuni passaggi, come ad esempio le pieghe della bianca camicia di Giuditta o il distendersi un po’ pesante dell’ombra sul suo petto. Dal confronto con la versione autografa più prossima, cioè quella Longhi, si potrà notare come quest’ultima offra una pittura più sfumata, come vi sia più soffice la struttura delle pieghe e più lieve il contorno delle figure, dei tratti delle fisionomie», talché appare, nella versione Koelliker, «l’intervento della bottega del veneziano». Tra il 2003 e il 2005, il dipinto ha subito un accurato intervento di restauro, eseguito da Carlotta Beccaria, che ha rimosso i «numerosi precedenti interventi di restauro sulle lacune» e le «velature di superficie eseguite per unificare le pennellate e rimuovere le linee della craquelure», restituendo morbidezza e leggerezza alle pennellate, particolarmente sul panneggio. A seguito del restauro, Papi ha accettato la piena autografia dell’opera (2005, p. 277: «de todas ellas se deberá destacar la que recientemente ha llegado a la colección Koelliker de Milán, la cual, tras una cuidadosa restauracón, muestra una calidad que, a mi entender, la eleva a una nueva versión original», in spagnolo nel testo originale; 2006, p. 104: «il restauro che ha riguardato il dipinto dopo il suo ingresso nella collezione milanese ha confermato la paternità del pittore veneziano»). Mentre Benedetti (2007, p. 129) legge nell’opera, a fianco al maestro, l’ampio intervento della bottega («executed largely in Carlo Saraceni’s worshop»), John Thomas Spike (2003, cat. 52) ne accetta la piena autografia e la data alla fine della vita dell’artista (1620): «The present “Judith” is the most recent to come to light and gain the consensus of scholars. Its noticeable refinements over the examples in Vienna and in the Longhi Foundation in Florence suggest that this version is the most advanced of the series, executed shortly before the painter’s untimely death in 1620». La datazione non è molto dissimile da quella assegnata da Anna Ottani Cavina al dipinto in collezione Longhi (1618, A. Ottani Cavina, “Carlo Saraceni”, Vicenza, 1968, cat. 14). Spike coglie qui anche un fondamentale elemento di stile, segnalando come Saraceni tratti il tema in modo visibilmente diverso negli anni, dalla precoce versione viennese, in cui egli aveva dipinto il proprio volto nella testa mozzata di Golia, suscitando nell’osservatore un sentimento di suspence e rendendo palpabile la preoccupazione delle donne di essere scoperte, fino alla versione attuale, che suggerisce un senso di «sensuale intimità» («sexual intimacy»). Preferisce una datazione meno inoltrata nel secolo Gianni Papi: «sebbene sia molto difficile avanzare una data sicura, propenderei per una cronologia più precoce e forse intermedia fra il dipinto viennese e quello Longhi: l’opera potrebbe dunque essere stata eseguita in prossimità della metà del secondo decennio» (Papi 2006, p. 104). E’ un periodo in cui il prestigio di Saraceni era ben consolidato a Roma, come testimoniano importanti commissioni per prestigiose pale d’altare per chiese cittadine e della provincia oppure, per esempio, la decorazione della Sala Regia voluta da papa Paolo V in Quirinale, cui l’artista lavora tra il 1616 e 1617. Anche nel catalogo della mostra monografica dedicata all’artista nel 2014 da Maria Giulia Aurigemma, l’opera è accolta come pienamente autografa, nella scheda dedicata da Giulia Coco alla versione della Fondazione Roberto Longhi (Coco 2014, p. 239) e, per la sua grande bellezza, addirittura è l’unica versione riprodotta nella scheda (p. 238): «Ritenuto autentico da Argan, Ottani Cavina, Briganti e Papi è anche il dipinto già in asta Farsetti Prato, oggi in collezione Luigi Koelliker, definito da Mina Gregori “senza riserve […] un altro originale del maestro». «Si tratta di una versione alternativa a quella Longhi» e del «prototipo per due copie segnalate da Ottani Cavina: la prima a Madrid, presso la Galleria Quixquote, identificata da Longhi in un appunto manoscritto come “Prop. Federico Serrano Oriol lista 42 Madrid Abril 1959” (Fototeca Roberto Longhi, inv. 1070262); la seconda nella Galleria Estense di Modena dal 1964 (lascito Ferruccio Cami), ritenuta autentica da Ghidiglia Quintavalle e definita da Ottani Cavina grossolana opera di bottega, caratterizzata da una generale opacità della materia pittorica e da ombre caricate ed effettistiche (Pérez Sánchez 1965, Ottani Cavina 1968). Copie dello stesso autografo sono anche l’esemplare già presso Sotheby’s (1979) e un dipinto noto da una fotografia nella fototeca Giuliano Briganti di Siena (inv. B11319)» (Coco 2014, p. 239). L’opera è autografa di Carlo Saraceni anche per Chiara Marin (comunicazione del 4 marzo 2011, di cui resta registrazione negli archivi della proprietà: «Saraceni»). La piena autografia è accettata, infine, nel contributo più recente sulle versioni saraceniane di “Giuditta e Oloferne”, firmato da Andrea Donati (2016, p. 172): «La “Giuditta” è nota in almeno quattro redazioni autografe: il quadro della Fondazione Longhi di Firenze (olio su tela, cm 95,8 x 77,3, inv.83), dato da Giulia Coco al 1618 (ma la foto stampata riproduce il dipinto Koelliker non quello Longhi!), quello del Kunsthistorisches Museum, quello della raccolta Manusardi (già Finarte, nel 1963) e quello della collezione Koelliker di Milano (olio su tela, cm 92x76,5 cm) proveniente dalla vendita Christie’s, New York, 6 Giugno 1984, Lotto 179», cui lo studioso aggiunge, quale nuova proposta, un dipinto già in collezione belga (proposto in asta a Sotheby’s Parigi il 13 giugno 2023, lotto 21). Donati concorda con Papi sulla datazione, proprio percorrendo a ritroso il ragionamento di Spike sul rapporto con il caravaggismo («John Spike ha datato il dipinto Koelliker verso il 1620, anno della morte di Saraceni, Gianni Papi invece verso il 1615. Anticipare la datazione a mio avviso è più corretto, perché l’invenzione non è la prova finale di un’adesione convinta e netta al caravaggismo, bensì l’esito sperimentale di un soggetto famoso e assai praticato dagli artisti»). Donati svolge anche un acuto insight nel processo creativo dell’opera, comparando la prima versione – dipendente da Lotto – al filone cui appartiene la versione Koelliker, caratterizzata da un aperto richiamo a Caravaggio, modello ormai tanto cercato dal mercato da imporre al concreto Saraceni chiare linee di stile: «Quando Saraceni inventò la “Giuditta” era ormai lontano dal sentimento caravaggesco, ma sapeva che non poteva ignorare un fenomeno di portata europea. Ci voleva dunque una soluzione d’astuzia, che assecondasse forse il desiderio di un cliente esigente, dal gusto moderno, a caccia di un effetto speciale, ma che non tradisse del tutto il modo di sentire del pittore, orientato verso un ripensamento dalla pittura veneta sempre più decisivo. Saraceni doveva competere a Roma in un mercato straordinariamente agguerrito, in cui la pittura caravaggesca era di moda. Il cliente che egli aveva per le mani», cioè il committente del prototipo di questa nuova versione di “Giuditta e Oloferne” «doveva essere uno di coloro che ambivano a questo genere di pittura» (Donati 2016, p. 172). Proprio a partire dal dipinto Koelliker e dagli altri della serie, la scelta di una pittura che ruota intorno al lume della candela, integralmente puntata sui contrasti di luce e sulla drammaticità della scena, segna un passaggio di grande importanza nell’arte del primo Seicento, di cui Saraceni – che qui si gioca tutta l’esperienza fatta presso Adam Elsheimer (1578-1610) nel suo secondo discepolato a Roma e in rapporto al Merisi – è protagonista e apripista per la grande avventura del caravaggismo settentrionale, basti per esempio pensare a Honthorst. Vale la pena di accennare a questo punto ad un piccolo mistero, nel già complesso sistema delle repliche organizzato da Saraceni. L’intera bibliografia – Spike (2003), Papi (2005 e 2006), Coco (2014) e Donati (2017) – identifica il dipinto Koelliker con la versione passata in asta da Christie’s New York il 6 giugno 1984 (lotto 179, con misure leggermente diverse dalla tela Koelliker: 91,3x73,5 cm contro 92x76,5 cm), suffragata, come si legge nel catalogo d’asta da «a certificate from G. C. Argon [= Argan] and letters from Giuliano Briganti (1980) and Anna Ottani Cavina (1981), all stating the painting to be an autograph work by Carlo Saraceni». L’opera Christie’s è anche citata al n. 28 da Giuliano Briganti nel volumetto “Mostra di Pittori Italiani del Seicento”, apparso a Roma nel 1944, presso il mitico Studio d’Arte Palma (fondato da Pietro Maria Bardi nel maggio 1944, a poche settimane dalla Liberazione, come tentativo di coniugare attività espositive, mercantili e di centro di restauro). Tuttavia, comparando l’immagine a colori in catalogo ed anche una foto in bianco e nero conservata presso la fototeca di Benedict Nicolson (Kunsthistorisches Institut, Firenze, scheda 419902, negativo 17.545), la tela apparsa a Christie’s differisce dalla tela Koelliker per alcuni minuti dettagli, e quindi l’identità dei due dipinti, pur solida in letteratura, ci appare questionabile: per esempio, il pollice in vista nella mano che regge la candela, mentre esso è ripiegato e non visibile nella versione Koelliker; il pendente, la spilla e la catena dorata di Giuditta maggiormente in ombra e solo in parte visibili nella versione Koelliker; ed il decoro sul braccio di Giuditta, invece, meno visibile nella tela Christie’s. Ne deriva che, della particolare composizione con la tenda rossa, individuata da Papi (2003, 2006) e di cui l’opera in esame è il prototipo autografo, vi siano quantomeno sei repliche o copie (le due note a Papi, 2003, e precisate da Anna Ottani Cavina, cioè l’opera già in collezione Giuliano Briganti e quella nella collezione madrilena Serrano Oriol, e inoltre la tela della Galleria Estense di Modena, una tela apparsa a Sotheby’s nel 1979 – se diversa da –, una tela presso Robilant & Voena, la tela apparsa a Sotheby’s nel 2023 e pubblicata da Donati nel 2016), se non sette, qualora l’opera Christie’s sia altra da quella Koelliker, il che attesta la grande fortuna di questa soluzione. Osservando il quadro in modo ravvicinato emergono piccoli aggiustamenti nella figura della fantesca (per esempio, il naso e il dito in vista, mentre sotto la testa di Oloferne sembra emergere un disegno carbonioso a profilare parte dell’ovale e sotto le orbite di Giuditta, forse, accenni di un disegno a pennello. Maria Giulia Aurigemma ha confermato l'opinione in favore dell'autografia già espressa nel catalogo del 2014 a sua cura (comunicazione del 20 dicembre 2023) e Gianni Papi ha ribadito la piena autografia dell’opera già espressa nella sua pubblicazione del 2006 (comunicazione del 24 ottobre 2023). Ringraziamo i Professori Maria Giulia Aurigemma e Gianni Papi per il prezioso supporto nella catalogazione dell’opera.
Carlo Saraceni (1579 - 1620) , e bottega "Madonna con Bambino, sant’Anna e angelo", detta anche "Madonna del sonno" o "Un angelo veglia il Bambin Gesù con la Vergine e sant’Elisabetta", 1610-1615 Olio su tela 89,5 x 125 cm Elementi distintivi: sulla cornice al verso, in pennarello nero, «LK1516»; sull’asse superiore del telaio, in pennarello nero, «LI»; sull’asse inferiore, etichetta battuta a macchina, applicata con tre puntine «"MADONNA CON BAMBINO, S. GIOVANNINO E S.ANNA" di Saraceni. (Acquistato all’asta della Galleria IL PRATO di Firenze il 20/11/70 per £.507.060)» Provenienza: Giovan Angelo Altemps (1587-1620; inv. del 1618-1619, «un quadro grande» di «Carlo Venetiano» raffigurante «la Madonna, Santa Elisabetta e Nostro Signore con un angiolo») ?; Galleria Il Prato, Firenze, 20.11.1970; Collezione Koelliker (novembre 2002) Bibliografia: G. Papi, scheda in, G. Papi, a cura di, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", catalogo della mostra, a cura di G. Papi, Milano 2006, pp. 106-107, cat. 25 (Saraceni); S. Benedetti," The 'schola' of Caravaggio. Ariccia", «The Burlington Magazine», CIL, feb. 2007, p. 129 (Saraceni e bottega); Y. Primarosa, "L’originale ritrovato. Carlo Saraceni e l’ "Angelo che veglia il Bambino Gesù con la Vergine e sant’Anna” tra repliche autografe, derivazioni e copie", in P. Di Loreto, a cura di, "Originali, repliche, copie. Uno sguardo diverso sui Grandi Maestri", Roma, 2018, pp. 174-180 (collaboratori di Saraceni, su prototipo di Saraceni); Y. Primarosa, "Nuova luce su Carlo Saraceni: La Madonna del Pilar di S. Maria in Monserrato e altri inediti", in «Storia dell’Arte», Inverno 2018, pp. 73-74 e 75 nn. 18-19, (collaboratori di Saraceni, su prototipo di Saraceni) Esposizioni: G. Papi, a cura di, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", (Ariccia, Palazzo Chigi), 13 ottobre 2006 - 11 febbraio 2007, Ariccia, Palazzo Chigi Stato di conservazione. Supporto: 80% (reintelo; riduzione di alcuni centimetri sul lato sinistro) Stato di conservazione. Superficie: 85% (cadute di colore diffuse, anche sui visi; forse uno sfondamento della tela; riprese pittoriche e vernice protettiva, anche sulla testa del Bambino) Il veneziano Carlo Saraceni (1579 circa –1620) fu uno dei primi seguaci di Caravaggio, cui, per usare le parole di Roberto Longhi, diede una interpretazione «neo-giorgionesca» fondendo il realismo del maestro lombardo con la pittura tonale di impronta veneta. Giunge a Roma nel 1598 dove frequenta la bottega dello scultore vicentino Camillo Mariani (1567-1611) per passare presto a servizio del pittore tedesco Adam Elsheimer (1578-1610). Tra il 1609 e il 1610 dipinge il “Transito della Vergine”, preferito dai Carmelitani scalzi alla “Morte della Vergine” di Caravaggio, per decorare seconda cappella a sinistra della chiesa trasteverina di Santa Maria della Scala. Come testimoniano altre prestigiose committenze – dalla decorazione a fresco della sala regia del Quirinale alle tele per San Lorenzo in Lucina e Santa Maria dell’Anima, sino al telero raffigurante “Enrico Dandolo e i capitani crociati” per la sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale a Venezia – Saraceni fu eccezionale pittore ma anche grande promotore della propria opera. Secondo una brillante intuizione di Yuri Primarosa, egli eseguiva «abitualmente delle repliche di piccolo formato delle sue opere più famose» in prima persona o affidandole agli allievi, «nel suo atelier di “strada Ripetta verso San Giacomo”». «Ma si trattava di “ricordi” che rimanevano nella bottega a memoria dei più importanti lavori eseguiti? Oppure di una sorta di vetrina o campionario da mostrare ai potenziali clienti che potevano richiedere al pittore altre repliche delle opere visionate? Con ogni evidenza la risposta è affermativa per entrambi i quesiti. Gli originali, le seconde o le terze versioni autografe, i dipinti a quattro mani e le copie da questi derivate contribuivano, assieme alle stampe, a diffondere l’opera dell’artista e ad accrescerne la reputazione su scala europea» (Primarosa, 2018, “L’originale ritrovato. Carlo Saraceni etc”, pp. 73-74). Il giovane studioso disegna così per Saraceni una prassi comune a molti artistici veneti, quantomeno da Tiziano a Canova (G. Tagliaferro, “The composition of themes and variations by Titian and his workshop”, in P. Humfrey, a cura di, “Titian. Themes and Variations”, Firenze, 2023, pp. 12-37; P. Mariuz, “Lo studio di Canova a Roma”, in G. Pavanello, a cura di, “Canova. Eterna Bellezza”, Cinisello Balsamo, 2019, pp. 44-55), che vede l’autore consapevole del valore – autonomo e persistente – della propria invenzione, diffusa attraverso uno studiato sistema di variazioni e repliche: in cui varia il coinvolgimento manuale, ma di cui resta indiscutibile e fondamentale la titolarità intellettuale. Appare questo, oggi, il più aggiornato punto di vista per affrontare anche la «analisi comparata delle numerose repliche della Madonna del sonno […,] un caso studio di grande interesse, trattandosi fuor di dubbio dell’invenzione più copiata» di Carlo Saraceni (ibidem, p. 74). Sono ben dodici le opere – oggi note – testimoni di questa invenzione, stesure originali e repliche realizzate da Saraceni o quantomeno sotto il suo diretto controllo, nonché copie. Tre di esse – oggi all’Honolulu Museum of Fine Arts, al Museé Fesh e in collezione privata con provenienza da Giancarlo Baroni – sono su rame, tecnica impiegata anche in una quarta versione, nella collezione di Aldo Briganti nel 1948 e ora dispesa (Letizia Treves, scheda 32, in Maria Giulia Aurigemma, a cura di, “Carlo Saraceni. 1579-1620. Un Veneziano tra Roma e l’Europa, Roma, 2014, pp. 233-235). Otto, invece, sono su tela: due connesse a collezioni nobiliari (Pallavicini e Altemps), due in collocazione pubblica (Muzeum Narodowe di Varsavia e Badia della Trinità a Cava dei Tirreni) e due in collezione privata (una a Roma e l’altra già in asta con Samuel T. Freeman & Co., 10 luglio 2021, l. 91), oltre al dipinto in esame, che proviene dalla collezione di Luigi Koelliker, come bene scrive Sergio Benedetti, «without question the most ambititous and passionate collector of Italian paintings today» (Benedetti 2007, p. 127). Il dipinto è stato reso noto da Gianni Papi, nella mostra “La “schola” del Caravaggio. Dipinti dalla Collezione Koelliker“, tenutasi a Palazzo Chigi, ad Ariccia, nel 2006. Lo studioso, in ragione della «qualità sostenuta in tutta la superficie pittorica», la ritiene «una redazione autografa», opinione ribadita anche da ultimo con comunicazione del 24 ottobre 2023. Sergio Benedetti, nella recensione sistematica della mostra, ne completa la definizione attributiva osservando l’intervento della bottega («appear to have been largely executed in Carlo Saraceni’s workshop», Benedetti 2007, p. 129). Della stessa opinione Maria Giulia Aurigemma, che considera l’opera una ottima «replica di bottega sotto lo stretto controllo e con intervento del Maestro, secondo una prassi consueta» (comunicazioni del 2 novembre e del 20 dicembre 2023). La collocazione tra le versioni prodotte dalla bottega di Saraceni è accettata da Yuri Primarosa («bottega, non copia», comunicazione del 18 dicembre 2023) e Chiara Marin (comunicazione del 4 marzo 2011, riportata in forma sintetica negli archivi della proprietà: «Penso che l’autore faccia parte della cerchia stretta degli allievi del Saraceni a Roma e l’allure francese, che mi è sembrato di poter individuare, mi fa pensare a Guy François»). Letizia Treves ha efficacemente distinto queste opere – prototipi, repliche e copie – secondo tre famiglie con leggere differenze, che confermano come le varianti dell’idea siano state orchestrate nella bottega: le «composizioni sono simili, pur mostrando piccole differenze in alcuni dettagli, quali la parte superiore della canna di bambù in mano alla sant’Anna, l’orlo blu del suo copricapo, e le pieghe del panneggio giallo». Treves identifica due versioni primarie, il rame di Honolulu (con «la canna di bambù più corta e meno dettagliata, e con il copricapo privo dell’orlo blu») e il rame ex collezione Baroni (con «la canna più lunga e più definita, e con il copricapo munito dell’orlo blu»), da cui derivano due famiglie di repliche e copie mentre una terza famiglia, rappresentata dal rame di Ajaccio, «unisce elementi delle due prime categorie», il che fa pensare che le due versioni primarie «siano state nello studio di Saraceni contemporaneamente». All’esito del ragionamento, ad un certo punto modelli di tutte e tre le rappresentazioni si devono essere trovati presso la bottega del Saraceni (Letizia Treves 2014, p. 235). E rispetto all’ineguale esito materiale, il piano ideativo si conferma il tratto davvero caratterizzante: «Nonostante l’esecuzione spesso rozza delle copie e delle varianti sopra elencate, la raffinatezza e la complessità della composizione originale del Saraceni appaiono evidenti» (Letizia Treves 2014, p. 235). Fino alla nitida intuizione di Yuri Primarosa, in parte anticipata dalle osservazioni appena esposte di Letizia Treves, il rapporto tra prototipi, repliche e copie è stato interpretato in modo slegato: come dipinti che apparivano all’orizzonte della storia dell’arte con una certa casualità e senza alcuna intenzionalità comune. Osservandoli sia come strumenti di promozione sia come prodotti finali per i diversi committenti e mercati, il ruolo di Saraceni – autore sempre dell’idea, “l’inventio” – e della bottega, esecutrice in modo più o meno esteso della produzione materiale – assumono un nuovo livello di organicità, con risvolti importanti sul piano attributivo. In altre parole, quali prodotti Saraceni voleva proporre sotto il suo nome, o il suo marchio? Che livello di qualità dovevano raggiungere? Ed oggi in che modo la critica si misura con queste opere? Tralasciando le copie, caratterizzate da una qualità nettamente più bassa (è il caso, per esempio, del dipinto passato presso Samuel T. Freeman & Co. nel 2021), la critica non è affatto concorde sulle opere a cui attribuire il ruolo di prototipi e/o la piena autografia. Per Treves, si è visto, autografi sono sostanzialmente solo i due rami di Honolulu ed ex Baroni. Gianni Papi considera autografe le versioni Koelliker, qui in esame, e quella del Muzeum Narodowe di Varsavia. Quest’ultima è ritenuta una replica da Bialostoski (1956, pp. 94-95, n. 83); Anna Ottani nel 1968 – da una riproduzione fotografica – non esclude che sia «addirittura autograf [a] data la sua qualità non comune»; Nicholson (1979, 1990, I, p. 171) la considera «original or good replica», mentre per Treves è una copia. Nel 1990, Anna Ottani identificò il prototipo della serie nel rame di Honolulu (al tempo sul mercato), ritenendo tuttavia probabile che Saraceni «avesse personalmente eseguito della medesima composizione anche una versione più grande, su tela» (come in Papi 2006, p. 106). Parimenti considerò il rame ex Baroni una copia dal rame di Honolulu, ma «a seguito di un più recente studio di questa opera, l’autrice ha rivisto la sua opinione facendo notare non soltanto che la sua qualità è notevolmente superiore a quella di tutte le altre varianti e copie conosciute, ma che mostra un grado di raffinatezza totalmente assente nelle altre versioni. In particolare il dipinto ex-Baroni differisce in numerosi dettagli dal rame di Honolulu, e non può quindi essere considerata come una mera copia pedissequa ma piuttosto in quanto variante di altissima qualità esecutiva all’interno stesso della bottega del Saraceni, molto probabilmente con l’intervento del maestro stesso» (Treves 2014, p. 235). A sua volta, Primarosa, in due contributi del 2018 che svolgono l’articolato ragionamento già esposto sulla finalità delle repliche saraceniane, identifica «il fortunato prototipo in “tela d’imperatore”», il «primo originale» in un dipinto in collezione privata, già appartenuto al duca Giovan Angelo Altemps (1587-1620). Proprio l’inventario dei beni del duca, redatto verso il 1618-1619, consente a Primarosa di chiarificare il soggetto: è registrato infatti «un quadro grande» di «Carlo Venetiano» raffigurante «la Madonna, Santa Elisabetta e Nostro Signore con un angiolo». «Non è dunque Anna, come sinora ritenuto, ma verosimilmente Elisabetta a rivolgersi alla Vergine al cospetto del Bambino addormentato: un’epifania sacra nella forma di una visione mistica del figlio di Dio, annunciato a Maria dall’arcangelo Gabriele e dalla stessa Elisabetta durante la Visitazione» (Primarosa, “Nuova luce su Carlo Saraceni…”, p. 74). Se l’inventario è davvero traccia del corretto soggetto, esso acquista una originalità intellettuale spiccata, e la coperta che l’Angelo sta ponendo su Gesù diventa piuttosto un velo che scopre il Salvatore del mondo. Vale la pena di osservare che la menzione nell’inventario Altemps identificata da Primarosa –“tela d’imperatore”, ossia 130x90 cm, si attaglia perfettamente sia alla tela da lui pubblicata (94x130 cm), sia al dipinto Kolliker, qui in esame (89,5x125 cm), sia alle tele di Varsavia (92,5x127 cm) e Pallavicini (97,3 x 134,5 cm), presentando tuttavia queste ultime due marcate caratteristiche di copia. Abbiano quindi soltanto tre opere - tutte di altissima qualità e comunque certamente realizzate nella bottega del maestro - che secondo la critica aspirano al rango di invenzione originale e/o alla piena autografia, il rame di Honolulu (Ottani, Treves), la tela connessa all’inventario Altemps nel 2018 (Primarosa) e la tela Koelliker (Papi). Sottolinea Papi, circa la tela in esame, che «la diffusa qualità (solo offuscata da qualche svelatura) trova momenti particolarmente significativi nel volto di profilo di sant’Anna, con la cuffia dal soffice cotone, brani tipicamente saraceniani, come quello del Bambino Gesù adagiato su un giaciglio di fasce virtuosisticamente intrecciate secondo viluppi serpentinati, nel modo tipico del pittore veneziano». La cronologia proposta dallo studioso è coerente con quella indicata da Ottani e Treves per il rame di Honolulu (poco dopo il 1610 ca): «Nella problematica cronologia del Saraceni, segnata da pochissimi punti fermi, il quadro potrebbe occupare una posizione nei primi anni del secondo decennio, quando il naturalismo caravaggesco che si spiegherà apertamente nelle tele del 1617-1618 di Santa Maria dell’Anima e di San Lorenzo in Lucina sembra ancora piuttosto lontano; così la “Madonna del Sonno” potrebbe semmai accostarsi al “Martirio di santa Cecilia” di Princeton, alle tele dipinte per la cattedrale di Toledo, del 1613-1614, al “Ritrovamento di Mosé” della Fondazione Longhi» (Papi 2006, p. 106). Essenziale ora l’osservazione ravvicinata della tela in esame anche in rapporto alle altre versioni. Innanzitutto, balza all’occhio un vistoso pentimento sulla testa della anziana, di cui l’orecchio in vista risulta dipinto due volte e spostato. Parimenti il fazzoletto da capo, dietro al collo, risulta in parte ricoperto per accentuare il distacco del fiocco dalla carne e rendere più squillante il bianco; la pittura sporca di nero sopra la pelle del collo è un abile gioco di realismo tipicamente caravaggesco (riscontrabile, per esempio, nella “Madonna dei Pellegrini”; mentre la mano della Vergine protesa verso l’osservatore è una chiara citazione della “Cena in Emmaus”, oggi alla National Gallery); i capelli del Bambino sono in parte dipinti sulla fascia bianca di Maria e la sua mano destra, resa in modo piuttosto geometrico, sembra esser stata leggermente riposizionata; la mano sinistra dell’angelo regge una parte della stola rossa; mentre la mano destra presenta piccole correzioni al mignolo, all’anulare e al dorso. Quasi invisibile è il nimbo del Bambino. Confrontando il dipinto Koelliker con le altre opere, va notato che il dipinto di Honolulu è leggermente più esteso sulla sinistra, accentua l’espressività nei volti e mostra un diverso trattamento della veste della vecchia, più aperta e integralmente bordata di bianco sul collo, nonché il bastone più corto e il fazzoletto senza orlo colorato: si legge tuttavia, anche se non molto accentuato, il pentimento all’orecchio. Il dipinto in collezione privata romana (Fototeca Zeri n. 45980) presenta lo stesso pentimento all’orecchio (tuttavia non bene compreso dall’esecutore) nonché il fazzoletto da capo della anziana bordato di azzurro, ma il bastone termina in un legno spaccato, come il rame già in collezione Baroni. Di quest’ultimo è completamente diversa l’espressione sul volto del Bambino e sono meno accentuate le ombre proiettate dai piedi, con un evidente pentimento sul piede ripiegato all’interno, così come sulla spalla, che potrebbe essere stata ridotta anche nel dipinto in esame: le anatomie sono in generale molto curate (si veda per esempio il sedere del Bambino). Anche nel dipinto Baroni risulta molto evidente il pentimento sull’orecchio della anziana, invece scarsamente leggibile nel dipinto di Ajaccio, qualitativamente meno rilevante degli altri due rami e con un chiaro effetto di copia. Il dipinto del Muzeum Narodowe non presenta il pentimento all’orecchio né alla mano destra dell’angelo, pur appartenendo alla cosiddetta serie con il fazzoletto bordato: si collega al rame ex Baroni per l’elemento del bastone fratto. È un po’ più esteso sul lato inferiore e presenta una maggiore leggibilità delle parti in ombra. Il dipinto collegato nel 2018 all’inventario Altemps parimenti non presenta il pentimento sull’orecchio, mostra tuttavia il bastone intero (come l’opera in esame), e nel complesso le anatomie sono meno auliche e sospese e più intense e coinvolte (Maria nel dolore presagito e Elisabetta-Anna nella interrogazione), così come i panneggi. Soprattutto il copricapo dell’anziana continua sul petto e poi dietro le spalle; ed anche il drappo sul braccio sinistro sembra essere un autonomo pezzo di tessuto rispetto al vestito. Probabilmente per dare spazio a tale sviluppo, è più esteso a destra. Maggiore, si può dire, è in quest’ultimo quadro il gusto per il dettaglio disegnativo: si confrontino per esempio, con l’opera in studio, le pieghe del lenzuolo teso alle spalle di Cristo, e le ali dell’angelo. Diversa anche l’espressione della bocca, che si apre in una parola nel dipinto in esame, mentre appare quasi serrata nell’opera in confronto; la stessa torsione delle teste delle due donna appare leggermente diversa, quasi ad avvicinarle. Di esso è copia il dipinto della Galleria Pallavicini, in cui le fisionomie appaiono più caricate e marcatamente “romane”, il grafismo si accentua e maggiori sono le distanze dal neo-giorgionismo, anche luministico, di Saraceni: è forse l’esempio di una copia esterna alla bottega. Anche considerando soltanto le varianti del bastone, del collo della veste della anziana, del suo copricapo, colorato o meno, ed esteso sulla spalla, ed infine il raddoppiamento sull’orecchio – visibile in modo del tutto peculiare nel dipinto in esame – la combinazione degli elementi costituisce i dipinti in una rete inestricabile, che rafforza per tutti la definizione di Carlo Saraceni (inventore sempre e talvolta, in tutto o in parte, esecutore) e bottega (quest’ultima con un ruolo materiale più o meno esteso). Certo è che la versione in studio presenta varianti significative rispetto a tutte le altre versioni note, oltre che una qualità esecutiva particolarmente alta. Ringraziamo i Professori Maria Giulia Aurigemma e Gianni Papi e il Dottor Yuri Primarosa per il prezioso supporto nella catalogazione dell’opera.
Johann Nepomuk Franz Xaver Strixner (1782 Altötting - 1855 Munich) after Carlo Saraceni (around 1579 Venice - 1620 ibid.): Death of Mary The dying Mary in the circle of the apostles and holy women, 19th century, Lithography Technique: Lithography on Paper Inscription: Signed below the image on the left and right. Date: 19th century Keywords: Depiction of saints, Saints, Mary, Dormitio, Death of Mary, Dormition, Death of Mary, Death of Mary, 19th century, Renaissance, Religious, Germany,
Attributed to CARLO SARACENI (Venice ca. 1570 - Venice, 1620). "Saint Paul and Saint Peter". Oil on copper (x2). Measurements: 10,5 x 7,5 cm (St. Paul); 10 x 7,5 cm (St. Peter). Regarding the subject represented, Saint Peter (Bethsaida, c. 1 B.C. - Rome, 67) was, according to the New Testament, a fisherman, known for being one of the twelve apostles of Jesus. The Catholic Church identifies him through the apostolic succession as the first Pope, based among other things on Jesus' words to him: "You are Peter, and on this rock I will build my Church, and the power of Death shall not prevail against it. I will give you the keys of the Kingdom of Heaven. Whatever you bind on earth shall be bound in heaven, and whatever you loose on earth shall be loosed in heaven". St. Peter could be said to have been Jesus' confessor, his closest disciple, the two being united by a very special bond, as narrated in both the canonical and apocryphal Gospels. In the case of Saint Paul, he was a Hellenised Jew from the Diaspora, born in Tarsus. He was therefore Jewish by ethnicity, Greek by culture and Roman by nationality. He received the name Saul, which he changed to Paul after his conversion. Born at the beginning of the first century, he studied in Jerusalem with Rabbi Gamaliel, who was known for his hatred of Christians. One day, when he was on his way from Jerusalem to Damascus around the year 35, he was dazzled by lightning and fell from his horse. Then he heard the voice of Jesus saying to him: "Saul, Saul, why are you persecuting me? As a result of this experience, the saint went abruptly from persecutor to zealot of Christianity. After curing the blindness of a Christian from Damascus, he began his life as a missionary until he reached Jerusalem, where he came into contact with Peter and the other apostles. In the Middle Ages numerous corporations were placed under his patronage, due to various aspects of his iconography, life and miracles. However, St Paul was never a popular saint, which is evidenced by the relative poverty of his iconography. Saraceni was an Italian painter of the early Baroque period, whose reputation as a "first-class painter of the second rank" was enhanced by the publication of a modern monograph in 1968. Although he was born and died in Venice, his paintings are clearly Roman; he moved to Rome in 1598, joining the Accademia di San Luca in 1607. He never visited France, although he spoke French fluently and had a French following and a French wardrobe. His painting, however, was influenced at first by the densely wooded landscapes and lush human figure settings of Adam Elsheimer, a German painter living in Rome; "There are few Saraceni landscapes that have not been attributed to Elsheimer," observed Malcolm Waddingham, and Anna Ottani Cavina has suggested that the influences may have travelled both ways.Elsheimer's small cabinet paintings on copper provided a format that Saraceni employed in six landscape panels illustrating The Flight of Icarus; in Moses and the Daughters of Jethro and Mars and Venus. When Caravaggio's famous Death of the Virgin was rejected in 1606 as a suitable altarpiece for a chapel in Santa Maria della Scala, it was Saraceni who provided the acceptable substitute, which remains in situ, the only secure painting from his first decade in Rome. He was influenced by Caravaggio's dramatic lighting, monumental figures, naturalistic detail and momentary action (illustration, right), for which reason he is counted among the early "Tenebrists" or "Caravaggisti". Examples of this style can be seen in Judith Candlelight with the Head of Holofernes.Saraceni's style matured rapidly between 1606 and 1610, and the following decade gave way to his fully mature works, synthesising Caravaggio and the Venetians. In 1616-17 he collaborated on the frescoes in the Sala Regia of the Palazzo del Quirinale.
Carlo Saraceni Venice 1579 - 1620 Judith and the Head of Holofernes Oil on canvas 90,5 x 75,2 cm; 35⅝ by 29⅝ in. ____________________________________________ Carlo Saraceni Venise 1579 - 1620 Judith tenant la tête d’Holopherne Huile sur toile 90,5 x 75,2 cm ; 35⅝ by 29⅝ in.
(Venezia 1585 - 1625) Preaching of St John the Baptist Oil on canvas, 54.5x70 cm. Framed (defects) Literature A. Ottani Cavina, On the Theme of Landscape: Addition to Saraceni, in "The Burlington Magazine", febbraio 1976, vol. 118, n. 875, pp. 83 e 84, figg. 28, 30, 32, 35. IT La predica del Battista Olio su tela, cm 54,5x70 In cornice (difetti) Bibliografia A. Ottani Cavina, On the Theme of Landscape: Addition to Saraceni, in "The Burlington Magazine", febbraio 1976, vol. 118, n. 875, pp. 83 e 84, figg. 28, 30, 32, 35.
Attribué à Carlo SARACENI Venise, 1579 - 1620 Saint Grégoire le Grand Toile (Accidents et restaurations anciennes) Saint Gregory the Great, canvas, attr. to C. Saraceni h: 53,50 w: 38 cm Provenance : Vente anonyme ; Londres, Christie's, South Kensingthon, 19 septembre 2002, n° 238 Commentaire : Carlo Saraceni, avec l'aide de son atelier, a décliné en réductions pour des amateurs ses grands retables conçus pour les églises romaines. Un grand format montrant le pape Grégoire, présentant des variantes avec notre tableau, est conservé à Burgley House, à Stamford, dans la collection du marquis d'Exeter (toile, 166 x 126,5 cm). Estimation 8 000 - 12 000 €
Johann Nepomuk Franz Xaver Strixner (1782 Altötting - 1855 Munich) after Carlo Saraceni (around 1579 Venice - 1620 ibid.): Death of Mary The dying Mary in the circle of the apostles and holy women, 19th century, Lithography Technique: Lithography on Paper Inscription: Signed below the image on the left and right. Date: 19th century Keywords: Depiction of saints, Saints, Mary, Dormitio, Death of Mary, Dormition, Death of Mary, Death of Mary, 19th century, Renaissance, Religious, Germany,
The Great Flood Oil on canvas, cm. 121x103. Framed. The present work is accompanied by Export License. LITERATURE: G. Porzio, Antiveduto Gramatica, Carlo Saraceni. Recuperi per il primo Seicento romano, in "Storia dell'arte", no. 134, 2013, p. 83; G. Porzio, in "Carlo Saraceni 1579 - 1620. Un Veneziano tra Roma e l'Europa", exhibition catalogue, edited by M. G. Aurigemma, Rome 2014, p. 294.
Attributed to CARLO SARACENI (Venice ca. 1570 - Venice, 1620). "The Coronation of the Virgin. Oil on copper. It presents slight restorations. Measurements: 75,5 x 53 cm; 121 x 88 cm (frame). In this work the Virgin Mary is represented in the centre, thus establishing the axis of symmetry of the composition, which facilitates the compression of the scene, since it is composed of a number of characters, which create with their disposition, a border around the figure of Mary. In the upper area, the Holy Spirit, Jesus Christ and God the Father contemplate the Virgin, who is being crowned by two small angels who in turn carry garlands of flowers. The Virgin raises her gaze and receives the cherubs with open arms, while she is accompanied by a large retinue of musical angels. This theme had already been treated by Saraceni in the church of Santa Maria in Aquiro in Rome, specifically in the ceiling of the chapel of the Annunciation. The musical angels are the latest expression of a complex set of musical ideas of a mystical-mathematical nature that have their roots in the most remote antiquity and whose common denominator is the ordering of the world and the relationship between the macrocosm and the microcosm. They are the last group of the epiphany and the army of God, and for this reason the closest to mankind. Although he was born and died in Venice, his paintings are clearly Roman; he moved to Rome in 1598, joining the Accademia di San Luca in 1607. He never visited France, although he spoke French fluently and had a French following and a French wardrobe. His painting, however, was influenced at first by the densely wooded landscapes and lush human figure settings of Adam Elsheimer, a German painter living in Rome; "There are few Saraceni landscapes that have not been attributed to Elsheimer," observed Malcolm Waddingham, and Anna Ottani Cavina has suggested that the influences may have travelled both ways.Elsheimer's small cabinet paintings on copper provided a format that Saraceni employed in six landscape panels illustrating The Flight of Icarus; in Moses and the Daughters of Jethro and Mars and Venus. When Caravaggio's famous Death of the Virgin was rejected in 1606 as a suitable altarpiece for a chapel in Santa Maria della Scala, it was Saraceni who provided the acceptable substitute, which remains in situ, the only secure painting from his first decade in Rome. He was influenced by Caravaggio's dramatic lighting, monumental figures, naturalistic detail and momentary action (illustration, right), for which reason he is counted among the early "Tenebrists" or "Caravaggisti". Examples of this style can be seen in Judith Candlelight with the Head of Holofernes.Saraceni's style matured rapidly between 1606 and 1610, and the following decade gave way to his fully mature works, synthesising Caravaggio and the Venetians. In 1616-17 he collaborated on the frescoes in the Sala Regia of the Palazzo del Quirinale. In 1618 he was paid for two paintings in the church of Santa Maria dell'Anima. In 1620 he returned to Venice, where he died in the same year.
DER TOD MARIENS Öl auf Kupfer. 35,5 x 28,5 cm. In einem Innenraum, in einem weiß bezogenen Bett mit rotem Baldachin, frontal liegend die sterbende Maria in rot-türkisfarbenem Gewand mit Nimbus um ihr Haupt, die Hände sorgsam vor ihrer Brust zusammengelegt und weißem fahlem Gesicht. Sie ist umgeben von den Aposteln, teils die Hände gefaltet, einer von ihnen am Fußende des Bettes nachdenklich sitzend in gelbem Umhang, sowie auf der rechten Bildseite deutlich hervorgehoben Johannes Evangelist mit gekreuzten Armen, leuchtend rotem Mantel und sie intensiv anblickend. Der Tod Mariens ist typisch für die Darstellungen aus dem Marienleben. (1321701) (18)
Seguace di Carlo Saraceni (Venezia 1579 - 1620) del XVII/XVIII secolo Riposo durante fuga in Egitto Olio su tela 131 x 106 cm L’opera in esame è ispirata all’opera del maestro veneziano Carlo Saraceni, “Riposo nella fuga in Egitto”, Monteporzio Catone, Sacro Eremo, Tuscolano (RM). Copy of Carlo Saraceni (Venice 1579 - 1620) of the 17th/18th century Rest on the flight into Egypt Oil on canvas 131 x 106 cm
(Venezia 1585 - 1625) Preaching of St. John the Baptist Oil on canvas, 54.5x70 cm. Framed (defects) Literature A. Ottani Cavina, On the Theme of Landscape: Addition to Saraceni, in "The Burlington Magazine", febbraio 1976, vol. 118, n. 875, pp. 83 e 84, figg. 28, 30, 32, 35. IT La predica del Battista Olio su tela, cm 54,5x70 In cornice (difetti) Bibliografia A. Ottani Cavina, On the Theme of Landscape: Addition to Saraceni, in "The Burlington Magazine", febbraio 1976, vol. 118, n. 875, pp. 83 e 84, figg. 28, 30, 32, 35.
Oil painting on canvasElijah, the prophet of prayer. The painting in question is one of the few by the author to be dated (1620) and signed with monograms. Undoubtedly unpublished, a new piece in the search for the biography of this artist and in the organization of his workshop, in which Jean Le Clerc collaborated. Being the work dated shortly before the painter's death, in it we can define all the stylistic canons of the Saracens who, despite the good acquaintance with Caravaggio, follows him but does not imitate him, making the chiaroscular light his own, metabolizing it and reworking it through of his Venetian artistic training. In fact, the Venetian colors remain in his paintings that never reach, as in this work, the plastic drama of the Caravaggists, to express and convey to the viewer a pathos that is never excessively tragic but aimed entirely at expressing the factual story in its entirety. and in its narration. Signed and dated 1620 in the lower center.
Follower of Carlo Saraceni (Venice 1579-1620) The Penitent Saint Peter oil on canvas 77.7 x 64.8cm (30 9/16 x 25 1/2in). For further information on this lot please visit the Bonhams website
SARACENI, CARLO Venice ca. 1580 - 1620 Title: St. Peter as Penitent. Date: Ca. 1618-1619. Technique: Oil on copper. Mounting: Laid down on wood. Measurement: 23 x 18cm. Frame/Pedestal: Framed. Provenance: Private ownership, Germany. Carlo Saraceni's paintings on copper, together with the works of Adam Elsheimer, constitute the high points of Italian artistic culture in the first decades of the 17th century. The Venetian painter used the precious metal painting carrier on numerous occasions: for smaller versions of larger compositions or for autonomous paintings, sometimes repeated in several copies. An emblematic case is Saint Peter as a penitent. A version by Carlo Saraceni is in Rome in the collection of Fabrizio Lemme (oil on copper, 24,2 x 18,5 cm), executed by the painter around 1618. The success of the composition is confirmed by at least two other replicas, also on copper, which refer to the artist's workshop (Christie's, New York, 03.11.1999, lot 205, 22,2 x 16,8 cm; Dorotheum, Vienna, 17.10.2017, lot 272, 23,3 x 18,1 cm). The present painting, which has been in a German private collection for several decades, joins the small group of works on copper depicting the penitent Peter, becoming the fourth known version. The high quality of the execution suggests that the painting was executed by Carlo Saraceni himself in the years 1618-1620 and not by one of his pupils. We are grateful to Maria Giulia Aurigemma, Rome, for her kind support with cataloguing the present painting.
Follower of Carlo Saraceni (Venice 1579-1620) The Adoration of the Magi oil on canvas 77.2 x 49.6cm (30 3/8 x 19 1/2in). For further information on this lot please visit the Bonhams website
Please note the exact Buyer’s Premium charges which can be found in the Conditions of Sale in the Terms below. (Venice 1579–1620) Diana and Callisto, oil on copper, 10 x 16 cm, framed We are grateful to Francesca Cappelletti for suggesting the attribution of the present painting. This composition shows the subject of the mythological scene as Diana and Callisto. The female figure on the left, splashing the maiden with her back turned, shows the moment when Diana punishes the nymph Calisto after discovering her pregnancy. According to Ovid (Metamorphosis II: 457-465), the nymph was Diana’s attendant and therefore sworn to chastity. Having been seduced by Jupiter and left pregnant Callisto refused to undress and bathe at the spring, fearing that Diana would discover her betrayal. In the background, the rounded form of the trees, emphasising the density of the undergrowth, recalls the work of Adam Elsheimer (1578-1610), who was of German origin, but active at Rome during the first decade of the seventeenth century. Saraceni was in the city during the same period, where he was influenced by the innovations in landscape painting promoted by Elsheimer. In response to the new call to naturalism, Saraceni developed an artistic style characterised by elegance and a particular attention to the narrative rendering of his subjects, which achieved a success for his work among Roman aristocratic patrons. Works by Saraceni on copper of ‘paesi con piccole figure’, or landscapes with little figures, are recorded in Roman inventories and it is possible to date this work to between 1605 and 1610. It was almost certainly conceived as the pair to another small painting on copper representing Venus and Cupid (see lot 209) and it is possible to imagine that both paintings once belonged to a larger series of mythological paintings, such as the celebrated group of small paintings now in the Museo di Capodimonte, Naples that also depict Landscapes with stories from the Metamorphoses of Ovid Saraceni executed during the first decade of the seventeenth century.
Carlo Saraceni (Venice, 1585 - Venice, 1625). Elijah, the prophet of prayer. 134x156, oil paint on canvas. Signed and dated 1620 in the bottom center.."The painting in question is one of the only author to be dated (1620) and Signed on the with monograms. Certainly unreleased, new step in the research of the biography of the artist and the organization of his workshop, in which collaborated Jean Le Clerc. Being the little dated debut of the painter's death, and in it we can define all the stylistic canons of the Saracens who, despite good understanding with Caravaggio, follows him but it mimics taking up the chiarosculare light, reworking through his Venetian artistic training. It remains in his paintings the Venetian coloristic that never comes, as in this work, the plastic drama of Caravaggio, to express and convey to the viewer a pathos that is never too tragic, but all aimed to express the factual narrative as a whole and in his narrative. "STUDIO ASOR
Carlo Saraceni (Venice, 1585 - Venice, 1625). Elijah, the prophet of prayer. The painting in question is one of the only author to be dated (1620) and signed with monograms. Certainly unreleased, new step in the research of the biography of the artist and the organization of his workshop, in which collaborated Jean Le Clerc. Being the little dated debut of the painter's death, and in it we can define all the stylistic canons of the Saracens who, despite good understanding with Caravaggio, follows him but it mimics taking up the chiarosculare light, metabolizzandola and reworking through his Venetian artistic training. There remains indeed in his paintings the Venetian coloristic that never comes, as in this work, the plastic drama of Caravaggio, to express and convey to the viewer a pathos that is never too tragic, but all aimed to express the factual narrative as a whole and in his narrative. 134x156, oil paint on canvas. Signed and dated 1620 in the bottom center.
CARLO SARACENI (CIRCA 1579-1620) The Beheading of Saint John the Baptist etching, circa 1600-1620, on laid paper, without watermark, a good impression of this very rare print, trimmed to or just inside the subject, some pale scattered foxing, a flattened horizontal fold with some tiny repaired paper splits, framed Sheet 179 x 133 mm.
(Venezia, 1585 - 1625) Cacciata dei mercanti dal Tempio Olio su tela, cm 90X130 Nel 1609 Ciriaco Mattei commissionò una coppia di pendants a Carlo Saraceni: si trattava di due episodi della vita di Cristo, una 'Cacciata dei mercanti dal Tempio' e, probabilmente, una 'Fuga in Egitto'. Andate entrambi perdute, la prima è nota attraverso una copia considerata d'ubicazione sconosciuta e segnalata da Roberto Longhi nel suo saggio del 1943 (cfr. R. Longhi, 'Ultimi studi sul Caravaggio e la sua cerchia', 'Proporzioni', I. pp. 5 - 63, p. 47) e successivamente pubblicata da Anna Ottani Cavina (A. Ottani Cavina,'Carlo Saraceni', Milano 1968, p. 133, n. 112, fig. 135), risultando l'unica testimonianza iconografica dell'originale. La tela in esame da confronto fotografico parrebbe della medesima mano di quella longhiana, ma con una evidente differenza, quella del braccio teso posto al centro della composizione appartenente alla figura che da terra tenta di proteggersi dall'ira di Cristo. In seguito, il Nicolson, che a sua volta supponeva l'opera copia, la catalogava presso la collezione di Luigi Bellini a Firenze. Tuttavia, non è chiaro se la tela sia quella Flagellazione citata nell' «Inventario de Quadri esistenti nel Palazzo Dell'Ecc.mo Sig.r Duca Alessandro Mattei in Roma con loro stima» come «Flagello nel Tempio cornice dorata di Carlo Venetiano 200» (Archivio Antici-Mattei, Recanati, Mazzo 107, fascicolo sciolto, c. 2, n. 27- cfr. L. Testa, 'Carlo Saraceni: nuovi documenti per una rilettura della biografia del Baglione', in 'Giovanni Baglione (1566-1644). Pittore e biografo di artisti', a cura di S. Macioce, Roma 2002, pp. 160-183).
Paintings - Carlo Saraceni (Venezia, 1585 – Venezia, 1625). Biblical scene, dramatic representation of the Baroque, Prophet Elia prays for the resurrection of the widow's child. 134x156, Oil painting on canvas. Dated and initialled on the bottom centre
Attribué À Carlo SARACENI (1579-1620) Vénus, Junon et Minerve ( ) Vénus et Cupidon Paire de cuivres Attr. to C. Saraceni, Venus, Juno and Minerva, Venus and Cupid, pair of coppers 9 x 15 cm - 3 9/16 x 5 15/16 IN.
ATTRIBUTED TO CARLO SARACENI (italian 1579–1620) JUDITH WITH THE HEAD OF HOLOFERNES Oil on canvas 36 1/4 x 29 1/8 in. (92.1 x 74cm) provenance: Christie's, South Kensington, sale of July 12, 2002, lot 184, (as After Carlo Saraceni). The Collection of Dr. Hilary Koprowski and Dr. Irena Koprowska. note: The prime version of this composition is in the Kunsthistorisches Museum, Vienna (see A. Cavina, Carlo Saraceni, 1968, pp. 125-6, fig. 70).